L’Alaska era un pezzo di Russia, è diventata americana per colpa di una guerra in Crimea e ora potrebbe diventare il luogo dove trovare una soluzione a un’altra guerra combattuta in Ucraina. Il vertice di Ferragosto tra Donald Trump e Vladimir Putin si porta dietro molteplici suggestioni storiche e mette al centro uno Stato acquistato nel diciannovesimo secolo dagli Stati Uniti con una spregiudicata operazione immobiliare-geopolitica, che ha ispirato al presidente americano la voglia di completarne un’altra analoga: l’annessione della Groenlandia. Non è la prima volta che l’Alaska ospita un vertice di alto livello. Nel 1971 il presidente Richard Nixon la scelse per incontrare l’imperatore Hirohito, primo monarca regnante giapponese a mettere piede sul suolo americano. Nel 1984, a Fairbanks, Ronald Reagan incontrò Giovanni Paolo II in un faccia a faccia decisivo per parlare del futuro dell’Unione Sovietica, che osservava con preoccupazione dall’altra parte dello Stretto di Bering l’alleanza in chiave anticomunista tra la Casa Bianca e il Vaticano. Quando poi Reagan cercò di dare la spallata finale alla Guerra Fredda scelse un altro luogo artico, l’Islanda, per il vertice di Reykjavik del 1986 con Mikhail Gorbaciov (un precedente non di buon auspicio per Trump, perché i due leader di allora si alzarono dai colloqui senza aver trovato un accordo). Più di recente, nel 2021, l’amministrazione Biden ha deciso di tenere ad Anchorage, la principale città dell’Alaska, un delicato confronto con le autorità cinesi. Per i russi quella terra oltre la Siberia oggi rappresenta una garanzia, perché sanno che Putin non verrà arrestato sul suolo americano come rischierebbe, in teoria, nel caso di un vertice a Roma come quello discusso nei giorni scorsi tra la Casa Bianca e Palazzo Chigi. Gli Stati Uniti non riconoscono la Corte penale internazionale e non daranno quindi alcun seguito al mandato di cattura emesso contro il presidente russo dalla Cpi. Ma l’Alaska è anche, da lungo tempo, un rimpianto per Mosca e anche un’ossessione per alcuni esponenti del nazionalismo russo, che la vorrebbero indietro e guardano a quelle terre artiche con la stessa voglia di annessione che Trump nutre per la Groenlandia. Se oggi sulle due sponde del Mare di Bering non si parla solo russo è tutta colpa della guerra di Crimea e un po’ c’entra anche l’Italia, o meglio il Regno di Sardegna di Vittorio Emanuele II e del Conte di Cavour. A metà dell’Ottocento l’impero russo dello zar Alessandro II uscì pesantemente sconfitto dal conflitto in Crimea contro gli eserciti di Francia, Gran Bretagna e Impero ottomano, con il rinforzo di diciottomila uomini del corpo di spedizione piemontese che Cavour aveva affidato al generale Alfonso La Marmora. Lo zar doveva fare i conti con il dissesto economico provocato al suo paese dalla guerra e dall’isolamento internazionale (un altro promemoria per Putin) e temeva più di ogni altra cosa un nuovo confronto con gli inglesi, la superpotenza di allora. A caccia di soldi e con la necessità di proteggere i propri enormi confini, Alessandro guardò a quella che all’epoca si chiamava “Aliaska”, in russo, come un pericolo e un’opportunità. Il pericolo era rappresentato dal fatto che era un pezzo di Russia che confinava con le colonie inglesi dell’attuale Canada ed era indifendibile. L’opportunità era quella di vendere tutto alla giovane repubblica statunitense: gli americani, visti dalla Russia, in quel momento storico erano innocui e irrilevanti. I coloni russi in Nord America si opposero con forza. Dalla fine del Settecento avevano creato comunità di cacciatori di pelli in Alaska e poi si erano spinti sempre più a sud, fino nell’attuale California. A Fort Ross, a soli centoquaranta chilometri a nord di San Francisco, ci sono ancora oggi le chiese russo ortodosse dell’epoca e la stessa baia di San Francisco rientrava in una parrocchia ortodossa. Ma lo zar non volle ascoltarli e si fece convincere a vendere dal segretario di Stato americano William Seward, lo “Steve Witkoff” dell’epoca, che sapeva come trattare con la corte di San Pietroburgo e nel 1867 chiuse l’accordo per acquistare l’Alaska per 7,2 milioni di dollari dell’epoca (più o meno 150 milioni di dollari di oggi). Seward fu deriso per anni per aver comprato “un inutile pezzo di ghiaccio”, ma tutto cambiò quando fu scoperto l’oro nel Klondike. Nel tempo, l’acquisto dell’Alaska è stato riletto come un grande colpo per l’America e una fregatura per la Russia, vista l’importanza strategica ed economica di una terra ricca di mille risorse, tra cui importanti giacimenti di petrolio. Un colpo che adesso Trump, da navigato protagonista del real estate, vorrebbe replicare in Groenlandia. Il vertice in Alaska serve anche a Trump, in vista delle elezioni di Midterm dell’anno prossimo, per premiare e provare a rafforzare politicamente uno stato da sempre fedele ai repubblicani, ma che negli ultimi anni è diventato più moderato che in passato e non viene più considerato come indiscutibilmente rosso (il colore dei repubblicani). Nelle elezioni dello scorso anno, il presidente lo ha conquistato con il 54,5 per cento dei voti contro il 41,4 di Kamala Harris. Un margine in crescita rispetto al dieci per cento di vantaggio che Trump aveva riportato nel 2020. Da quando l’Alaska ha cominciato a votare nelle elezioni presidenziali nel 1960, solo una volta è stato conquistato dai democratici, ma era il 1964 della vittoria a valanga di Lyndon Johnson dopo l’assassinio di John F. Kennedy. Eppure l’Alaska non è più sicura come un tempo per i repubblicani e non ha mostrato molto entusiasmo in questi anni per il movimento Maga, nonostante in qualche modo lo abbia anticipato: la candidata vice di John McCain nelle elezioni presidenziali del 2008 era la governatrice dell’Alaska Sarah Palin, un’esponente politica che parlava come una “trumpiana” quando Trump era ancora solo un imprenditore e personaggio televisivo. In Congresso a Washington lo stato è rappresentato solo da repubblicani, ma sono esponenti moderati e tra loro figura la senatrice Lisa Murkowski, che è sempre stata una spina nel fianco per Trump e fu tra i pochi esponenti del suo partito a votare a favore dell’impeachment dopo l’assalto a Capitol Hill del gennaio 2021. Assai più solido è invece il rapporto che lega il presidente al governatore dell’Alaska, Mike Dunleavy, che però scadrà il prossimo anno e non può essere rinnovato. Dunleavy ha accolto subito con entusiasmo la notizia del vertice con Putin, sostenendo che l’Alaska “è il luogo più strategico al mondo, situato al crocevia tra Nord America e Asia, con l'Artico a nord e il Pacifico a sud”. "È appropriato che discussioni di importanza globale si svolgano qui – ha aggiunto il governatore -, per secoli l'Alaska è stata un ponte tra le nazioni e oggi rimaniamo una porta d'accesso per la diplomazia, il commercio e la sicurezza in una delle regioni più critiche della Terra. Il mondo ci guarderà e l'Alaska è pronta a ospitare questo incontro storico". Qualche anno fa Dunleavy aveva fatto notizia proprio alzando la voce con la Russia, di fronte all’ennesima sparata di qualche politico di Mosca che voleva l’Alaska indietro: “Buona fortuna, provateci! – aveva scritto il governatore sui social –. Abbiamo centinaia di migliaia di abitanti dell’Alaska e militari che la pensano diversamente e sono pronti a provarlo”. Adesso toccherà a lui organizzare con la Casa Bianca il vertice e stringere la mano a Putin, l’erede degli zar che torna su una terra che fu russa. Con la speranza che un vertice “di pace” non diventi l’occasione per il presidente russo di rimettere in discussione la svendita del 1867.
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