Romanzi da una terra remota e selvaggia. Chiacchierata con Annie Proulx 

04/08/2025 08:53 Il Foglio

Annie Proulx è una persona brusca e di poche parole per la quale provo un’istintiva simpatia, perché il suo atteggiamento nasce da un’onestà intellettuale che rivela costantemente una sincera dose di generosità. Quando venne a Capri per le Conversazioni, si affacciò dal belvedere di Punta Tragara e disse “ricorda il Newfoundland”, la terra remota e selvaggia dove ha vissuto a lungo: pensai che fosse una forma di snobismo ma capii presto che voleva dirmi di sentirsi a casa. Sono un estimatore del suo lavoro dai tempi di Avviso ai naviganti, il romanzo che ha vinto sia il Pulitzer che il National Book Award, come anche di Brokeback Mountain, reso celebre dall’ottimo film di Ang Lee. Non appartiene alla nutrita categoria di scrittori che ritengono il cinema una forma di espressione artistica inferiore alla letteratura, e riflette costantemente sul rapporto tra immagine e parola scritta chiedendosi parallelamente se un artista debba suggerire o svelare. “L’arte non è tale se non è sincera – mi ha detto – e all’epoca di Brokeback Mountain rimasi molto colpita dalle reazioni sorprese: i film western raccontano costantemente, sottotraccia, legami omosessuali, e a me sembra incredibile che nessuno ne abbia parlato prima, è come raccontare che Achille e Patroclo erano soltanto amici”.  Per apprezzarne la personalità di una scrittrice che frequenta pochissimi colleghi e vive in un villaggio che per sei mesi l’anno è coperto da due metri di neve, credo che sia utile condividere qualche altro dettaglio di quei giorni capresi. Rimase estremamente colpita dal fatto che Tiberio avesse deciso di trasferirsi sull’isola e volle visitare sia Villa Jovis che la rupe dalla quale venivano fatti precipitare coloro che l’imperatore condannava a morte: “La storia dell’impero romano è gloriosa – mi disse – e il contributo che ha dato al mondo intero è imprescindibile. Ma è di una storia piena di sangue e infamie, e questo ci dice molto su come evolve la civiltà”.  Non c’è nulla di insulare nella sua cultura: di fronte a Casa Malaparte mi disse che non aveva ancora un’idea definitiva su cosa pensasse dello scrittore, e poi mi chiese di indicarle Procida, “dove è ambientato L’isola di Arturo”. È nata a Norwich, nel Connecticut, e a dieci anni è stata aggredita da una forma violenta di varicella che l’ha costretta per un lungo periodo a letto: cominciò a scrivere, all’inizio quasi per gioco, scoprendo l’esperienza catartica della creazione letteraria. Nella vita e nell’arte punta all’essenzialità, ma rivela un elemento inaspettatamente tenero quando parla dei quattro figli nati dai tre matrimoni. Da quando è diventata celebre riceve inviti in ogni parte del mondo, condizione che vive con fastidio: “Ho sempre la sensazione che non siano interessati a quello che hai scritto, e vogliano il tuo nome per esporlo come trofeo e dimostrare di aver sconfitto il festival concorrente. Non è molto diverso quello che accade con i miei testi più popolari: ne sono lusingata, ma mi chiedo ad esempio quale sia il vero motivo per cui nasce un’opera lirica tratta da Brokeback Mountain”.  Ho ripensato a questo sfogo quando ho cominciato la nostra intervista, chiedendole quale sia stata la sua reazione agli adattamenti di Brokeback Mountain e Avviso ai naviganti.  “Li ho visti entrambi una sola volta: la differenza tra un libro e un film, tra il linguaggio delle parole e quello delle immagini, permette a entrambi una propria identità. I film non sono la storia che raccontano, ma il modo in cui una vicenda diviene qualcosa di nuovo e autonomo con una propria autentica realtà”. Prima di cimentarsi con la narrativa lei ha iniziato a scrivere come giornalista. “In campo letterario c’è un profondo snobismo nei confronti di chi non segue l’itinerario canonico e dedica tutta la propria vita alla letteratura, ma alcuni grandissimi scrittori sono stati giornalisti. Per quanto mi riguarda ho scritto anche manuali di giardinaggio e di cucina, e l’ho fatto con la massima professionalità e dedizione”. Ritiene che il linguaggio delle immagini abbia cambiato quello delle parole?  “L’impatto dell’immagine è potentissimo, e noi scrittori non dobbiamo illuderci di esserne immuni. Lo stesso vale per gli spettatori e i lettori: i personaggi dei libri vengono collegati ai film, agli attori, le scene, persino agli effetti speciali. Per molta gente, l’immagine in movimento è più forte della parola scritta che viene filtrata attraverso l’immaginazione del lettore”. C’è qualcosa che la letteratura può fare meglio del cinema? “Potrei parlarle delle descrizioni dell’interiorità e intimità dei personaggi, elemento che difficilmente l’immagine riesce a rendere con uguale efficacia, dilungandomi su tanti capolavori della letteratura che non hanno funzionato sullo schermo. Preferisco però rispondere pensando alla fisicità del lavoro letterario: il libro viaggia facilmente insieme a te, con l’eccezione di opere monumentali. Ovviamente sappiamo che oggi anche le immagini in movimento possono essere trasportate in una chiavetta o in un cellulare, ma io voglio partire da questo dato fisico per riflettere sul fatto che il libro invita il lettore a riflessioni e annotazioni, e queste interagiscono con il contenuto e ne arrivano a cambiare il significato. E’ una cosa che i film non possono fare”. Ritiene che invece ci sia qualcosa che il cinema possa fare meglio della letteratura? “Il cinema può usare il sonoro per rinforzare e letteralmente far esplodere le immagini nella mente dello spettatore. Un esempio specifico può essere Funny Games di Michael Haneke, che propone per tre volte in maniera magistrale e sconvolgente brani avvolgenti di musica classica alternati al terrificante Bonehead di John Zorn”. Ha seguito il lavoro di adattamento di Brokeback Mountain? “Il mio contributo è stato rispondere a molte domande dello sceneggiatore Larry McMurtry, il quale continuava a chiedermi: ‘Cosa pensa o sente X nei confronti di Z?’. Per un po’ ha flirtato con l’idea di far vivere ai due protagonisti delle storie d’amore eterosessuali più importanti, cosa che mio avviso avrebbe annacquato la tensione erotica tra Jack e Ennis. Ero e sono tuttora felice che quell’idea non abbia avuto seguito”. Ritiene che Twitter/X abbia cambiato il linguaggio degli scrittori? “Non ne ho la più pallida idea perché io non uso Twitter/X,  e per me non ha alcuna importanza”. Ho mai usato l’intelligenza artificiale delle sue ricerche o nella sua scrittura? “No, almeno che io sappia. Mi chiedo se l’intelligenza artificiale abbia mai utilizzato me: non ne ho le prove, ma lo sospetto”. Viviamo nell’era delle fake news, e sembra che la verità alternative abbiano la stessa rilevanza della realtà. Esiste un modo di combattere questa patologia? “Io non sono del tutto convinta che le fake news siano una patologia. Ritengo che mentire o costruire qualcosa di alternativo riguardo a qualunque tipo di esperienza sia qualcosa di profondamente umano: gli scrittori di finzione vivono di verità alternative e delle loro creative fake news. Ho vissuto abbastanza per sapere che la ‘verità’ è qualcosa di estremamente scivoloso e inafferrabile. Da adolescente ho letto lo straordinario racconto In a Grove di Ryunosuke Akutagawa e mi è rimasto dentro formando in modo in cui vedo il mondo: un luogo che cambia come un caleidoscopio nel quale ogni cosa può succedere e dove è veramente impossibile ‘conoscere’ ogni tipo di verità. Esistono così tante verità che danzano e si mescolano come spettri che ballano la conga”. Ritiene che la cultura e l’arte debbano sempre opporsi al governo e al potere? “E’ fin troppo ovvio che la cultura e l’arte possano esistere come normale opposizione al governo e al potere, che rappresentano lo sfondo per stimolare la creatività. Se non esiste un diritto legale di opporsi, gli individui accumulano al loro interno gli spasmi di una ribellione frustrata e inespressa fin quando prima o poi non esplode. In quest’ultimo caso la compiutezza artistica dell’arte finisce per risentirne”.  C’è uno scrittore che lei ammira nonostante non condivida le sue idee? “Mi viene in mente Graham Greene, in particolare Il nocciolo della questione”. Il mondo intellettuale liberal e in generale la sinistra sembra essere sempre più elitario non solo negli Stati Uniti: come è successo?  “E’ una domanda molto scivolosa. Io non so più con certezza cosa sia una persona di sinistra né una persona elitaria. Gli esseri umani sembrano molto flessibili nel modo in cui pensano e in quello in cui si comportano, e rimaniamo sempre basiti quando vediamo qualcuno di sinistra che all’improvviso diventa reazionario. Molti attribuiscono questo passaggio all’età o all’opportunismo, a me invece interessa riflettere sul potere conquistato con il denaro: più ne hai e più sei rispettato. Ai nostri tempi sembra essere l’unico elemento identificativo della mobilità sociale, l’unica cosa che conta”. In precedenti interviste c’è chi ha paragonato questo periodo storico al Maccartismo, parlando di un tradimento di quello che è l’America. Lei che ne pensa? “Per alcuni versi sono d’accordo, ma preferisco parlare di cosa ha rappresentato l’America partendo da un’esperienza personale. La famiglia di mia madre è venuta in questo paese nel 1635. Sono cresciuta con i miei nonni e con molte zie e zii. Mio nonno materno e prima di lui le generazioni che lo hanno preceduto hanno voluto celebrare il 4 luglio insieme all’intera famiglia. E’ la festa più importante dell’anno, e in quell’occasione non mancava nessuno e si sentiva un senso indefinito, ma forte e autentico, di patriottismo da parte di questo gruppo di persone tra le quali c’erano veterani delle battaglie contro i francesi e con coloro che erano chiamati gli indiani. Per non parlare della rivoluzione, la guerra civile e quella ispano-americana, le due guerre mondiali, fino ad arrivare ai giorni nostri. In quelle celebrazioni sentivo un’eco costante dell’illuminismo, declinato dai versi di Emile Coue che ripetevano mia madre e le zie ancora adolescenti: ‘Ogni giorno, in ogni modo, sto sempre meglio’. In questi momenti di autentica condivisione, era centrale il ruolo delle donne, e andava ben oltre quello di ancelle del signore: rappresentavano le fondamenta di ogni istituzione. Ai giorni nostri le grandi strutture familiari si sono dissolte nell’acido della morte, dell’età, della mobilità sociale e dei cambiamenti delle menti e dei cuori. Voglio concludere che il più grande tradimento che stiamo vivendo, non solo nei confronti dell’America, è quello relativo ai cambiamenti climatici: rappresentano l’elefante nella stanza ancora di più dei cambiamenti politici. Senza elaborarlo intellettualmente, molti avvertono che c’è qualcosa di terribilmente sbagliato nel mondo: si tratta di una malattia interna difficile da individuare e definire, che il paese sta esprimendo attraverso scelte politiche”. Lei ha parlato del ruolo delle donne: qual è la sua valutazione del modo in cui si esprime a riguardo l’attuale presidente? “Mi vengono insieme pensieri molto diversi: forse è stato educato in questo modo dal padre, o forse sente che molti lo disprezzano, nel suo intimo ritiene di essere insignificante o indegno e quindi denigra le donne, per sentirsi meglio. Forse pensa che essendo piccolo, umiliare le donne lo rende più grande. Forse è cresciuto in un ambiente dove molti uomini hanno umiliato e dominato le donne abusandole verbalmente e fisicamente per dimostrare chi è il capo. O forse è una persona completamente insensibile ed egoista che non ha mai provato il piacere di stare in compagnia di donne, salvo per il piacere sessuale. Io non ho una risposta precisa, ma so che esistono donne abituate a un trattamento del genere che tendono a vivere insieme a bulli e mascalzoni. E, mi sconcerta e addolora dirlo, sono donne che hanno votato per lui”. E’ d’accordo con chi pensa che parte del suo successo è dovuto a una reazione alle degenerazioni della cultura woke? “Sì, e si tratta di un risultato maligno. Ma è un nostro risultato maligno. Siamo stati noi a renderlo quello che è”. Come spiega che per i suoi elettori è irrilevante il fatto che sia stato condannato per un crimine? “Perché i suoi seguaci sono simili a una setta. E’ la nostra versione contemporanea di Jim Jones: molti seguaci sarebbero pronti ad avvelenarsi con il Kool Aid, se gli venisse chiesto di farlo. I loro attributi sono lealtà cieca e l’obbedienza, e credo che non esista nulla che il presidente possa fare che deluderebbe i suoi seguaci dagli occhi adoranti”.  Non crede che questa situazione porti a perdere i punti di riferimento morali?  “Io sospetto che i punti di riferimenti morali siano stati persi nella pioggia nel momento in cui Internet ha preso le redini della comunicazione di massa e ha dato nuova forma ai valori, introducendo l’edonismo come modo di vivere. Il denaro e il benessere sono diventati il fine per uomini d’affari egoriferiti e rapaci che si sentono in debito con il mondo. Se hai abbastanza soldi, puoi creare il mondo che vuoi, come vediamo giornalmente”. Ha letto Hillbilly Elegy? Cosa ne pensa? “A mio modo di vedere si tratta di robetta volgare”. Lei ha deciso di vivere isolata: è una scelta nata in reazione a quello che il mondo propone quotidianamente? “Come dicevamo prima a proposito dell’impero umano, la storia dell’umanità è composta da mostruosità e meraviglie, e sarà sempre così. Questo è un periodo particolarmente buio, ma per rispondere le dico che sono felice del modo in cui vivo”. Torniamo al ruolo dell’artista, applicandolo alla situazione odierna. “Credo che chiunque abbia a cuore il paese, vuoi che sia un artista, un intellettuale o anche una persona che non ha studiato, debba trovare una zattera sulla quale navigare in questo fiume velenoso, e utilizzare le immagini e le parole, come isole di verità che possano generare osservazioni acute che consentano agli altri di aprire gli occhi. Ma oggi tutto ciò è molto difficile”. Qual è il suo stato d’animo quando scrive? “Non saprei dirlo, l’unica cosa che so è che non mi sento mai sola”.    

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