A Hiroshima tutto è ostinato ricordo. Non solo il Parco della pace: i tram, il baseball, i locali dove si mangia l’okonomiyaki, perfino l’Hondori, il lungo viale di negozi che negli anni Cinquanta fu tra i primi a essere ricostruito. A ottant’anni esatti dalla prima Bomba atomica mai utilizzata in una guerra – e non l’ultima: tre giorni dopo quel 6 agosto del 1945 fu sganciata la seconda, sulla città di Nagasaki – gli hibakusha, i sopravvissuti ancora vivi sono sempre meno (sotto le centomila persone, nel paese con più centenari del mondo, ma molti di loro non hanno mai fatto attivismo e non hanno mai parlato di quei giorni). L’unica urgenza che si avverte, parlando con gli anziani e i volontari al parco della Pace, è quella di trovare un modo per portare avanti il ricordo prima che la contemporaneità lo rimuova, che i nuovi autoritarismi cancellino definitivamente il tabù dell’atomica, creando anche nuove generazioni di testimoni – come il dodicenne Shun Sasaki, che organizza tour gratuiti ed è una star fra i visitatori. L’ex primo ministro giapponese Fumio Kishida, che a Hiroshima ci è nato, portò qui i leader globali due anni fa per il vertice del G7, e accanto al Parco della Pace oggi c’è un piccolo mausoleo di quei giorni in cui tutti ricordarono Hiroshima, e pure l’albero di ciliegio Yoshino piantato dai grandi della terra ha iniziato a crescere. Nove anni fa l’ex primo ministro Shinzo Abe accolse qui Barack Obama, primo presidente americano in carica a visitare questi luoghi, e la sua visita fu l’ultimo passaggio di una rielaborazione collettiva del lutto e della distruzione compiuta dal paese che allora era nemico, poi è diventato alleato, e adesso, di nuovo, con l’Amministrazione Trump, si trova in un incomprensibile limbo. Negli anni del Dopoguerra gli abitanti di Hiroshima si portarono dietro la morte e la devastazione, lo stigma delle radiazioni, il pregiudizio e il razzismo nei confronti dei figli deformi, ma impararono a conviverci, a rialzarsi da soli, e ottant’anni dopo la città è forse la meno giapponese perché la sua identità ricostruita è diversa da qualunque altro posto nell’arcipelago. Ma per capirlo, e per capire la complessità unica della società giapponese, non basta una vita. Se per Hiroshima il 6 agosto è il ricordo, per il resto del Giappone quello è il giorno che portò al 15 agosto, cioè alla resa incondizionata del Giappone: la fine della guerra che qualcuno ancora oggi chiama umiliazione, mentre per la maggior parte della popolazione fu la liberazione dal bellicismo dell’impero. Negli ultimi quarant’anni, i primi ministri giapponesi hanno sempre concordato, con gabinetto e opposizioni, una dichiarazione formale da diffondere sulla guerra. Quest’anno il primo ministro Shigeru Ishiba ha annunciato che farà una sua dichiarazione personale, perché vuole decidere da solo cosa dire: “Non può essere solo un’espressione dei miei sentimenti. Devo riflettere attentamente su quali errori sono stati commessi e perché la guerra non ha potuto essere fermata”, ha detto Ishiba. Intanto oggi il primo ministro sarà a Hiroshima insieme con i rappresentanti di 120 paesi, tra i quali Ucraina e Israele (e, per la prima volta, anche un rappresentante dell’autorità palestinese). Russia, Cina e Corea del nord saranno assenti.
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