La scorsa settimana il ministero dell’Università e della Ricerca ha tenuto a Bari la prima “Conferenza nazionale sulla sicurezza e l’integrità della ricerca”, che avrebbe dovuto iniziare a creare dei confini nelle collaborazioni internazionali di centri di ricerca e accademie italiane. Soltanto qualche giorno prima, la ministra Anna Maria Bernini aveva accolto a Napoli il ministro della Scienza e della tecnologia cinese, Yin Hejun, per la Settimana Italia-Cina della Scienza, della tecnologia e dell’innovazione. Se i due eventi così ravvicinati vi sembrano in contraddizione, è perché lo sono. All’inizio di novembre, con una conferenza stampa a Palazzo Chigi del sottosegretario alla presidenza del Consiglio con deleghe alla sicurezza, Alfredo Mantovano, e la ministra Bernini, il governo italiano aveva annunciato l’inizio di un percorso per creare delle “linee guida” – dai contorni ancora poco chiari – che mettessero l’Italia nelle condizioni di dar seguito alla raccomandazione dell’Unione europea, approvata a maggio dal Consiglio europeo, sulla sicurezza economica che passa anche dalla sicurezza della ricerca. Se ne parla da tempo, e se ne parla soprattutto per via delle prove collezionate negli ultimi anni sul fatto che il governo cinese “ha usato i legami scientifici per trasferire tecnologia e conoscenze per modernizzare le proprie Forze armate o potenziare il proprio apparato di sorveglianza”, come scrive il Merics. Il governo italiano ha cercato però in tutti i modi di slegare l’iniziativa dalle attività scorrette della Cina – “questa iniziativa non è contro nessun paese, ma contro pratiche scorrette”, aveva detto Bernini. Una cautela che per esempio la sua omologa tedesca, Bettina Stark-Watzinger, ministra di un paese fortemente dipendente dalla Cina, non ha mai avuto: anche all’ultima Munich Security Conference ha esortato i ricercatori a essere molto più cauti nelle collaborazioni con la Cina. L’Italia è l’unico paese europeo in cui la consapevolezza della necessità di de-risking con Pechino sembra non essere ancora maturata in alcuni settori, e anzi tutto prosegue secondo linee parallele apparentemente in contraddizione che privilegiano la diplomazia. L’accoglienza del ministro Yin Hejun a Napoli per rafforzare “il coordinamento bilaterale strategico” su scienza e innovazione ha di fatto depotenziato il messaggio della conferenza sulla sicurezza negli stessi settori la settimana dopo. Peter Mattis, presidente della Jamestown Foundation, è un ex analista della Cia e ha lavorato a lungo con il governo americano per decodificare le attività della Cina, e dice al Foglio che si può essere ufficialmente “agnostici rispetto al paese” quando si tratta di sicurezza, ma i metodi cinesi per infiltrarsi nella ricerca occidentali sono tantissimi, “includono il furto della proprietà intellettuale, il lavoro a fianco di talenti ed esperti, il modo in cui gestisci un laboratorio”, è per questo che è difficile creare delle linee guida ma è ancora più necessario chiedere regole specifiche. Gli chiediamo come interpretare i così tanti incontri ufficiali tra Roma e Pechino nell’ultimo anno: “Ci sono alcune trappole che la Cina usa ripetutamente. Per esempio, quando cerchiamo di rinegoziare alcune questioni bilaterali, Pechino minaccia la sua cooperazione su questioni globali: se non compri questi prodotti che vengono dallo Xinjiang allora non lavoriamo con te sui cambiamenti climatici, e penso che soprattutto in questo periodo questa tattica gli dia un grosso potere”, dice Mattis, a Roma per l’evento di altissimo livello, collaterale alla presidenza italiana del G7, dal titolo “Information Warfare, Hybrid Threats and Nuclear Risk: The Hidden Threats of a Digital Age”, che si è svolto ieri alla Farnesina, organizzato dal Belfer Center for Science and International Affairs della Harvard Kennedy School e dal Weatherhead Center for International Affairs dell’Università di Harvard. “Offrono qualcosa che può essere portato via, quindi non devono necessariamente sottostare alla loro parte dell’accordo, e possono ritirarlo quando sono interessati”, spiega Mattis. “Questo tipo di trappole ci sta costringendo a fare dei compromessi. In alcuni casi i cinesi non hanno alcuna leva in termini di scelta di ciò che viene loro dato e quindi sono in grado di creare una leva dal nulla, in alcuni casi, perché lo vogliamo noi. Questo è uno dei problemi quando si guarda al modo in cui i decisori politici spesso inquadrano l’avere un buon rapporto con la Cina. Avere un buon rapporto tra primo ministro e primo ministro con il Regno Unito fa la differenza in termini di aziende italiane e aziende britanniche che si arricchiscono a vicenda?”. In Italia, ancora nessun politico di alto livello è preparato a questo genere di negoziazioni con i funzionari cinesi – in Francia e Germania ci si prepara già da tempo. Ma quali sono i settori più a rischio quando si parla di collaborazione scientifica con la Cina? “Biotecnologie, intelligenza artificiale e in misura minore il settore agricolo. La questione food in Cina è molto seria, ma IA e biotech sono primarie: quello che osserviamo è che la Cina sta raccogliendo dati per gli anni a venire”. Nelle biotecnologie c’è la volontà di dominare il mercato per ragioni economiche, certo, ma anche per prestigio, per leva politica e “come elemento della Difesa”.
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