Registrata nella futura memoria dell’infamia l’esultanza dei lungimiranti fan della vittoria di Putin – “l’avevamo detto, l’avevamo desiderato, agognato…” – ci si può interrogare sul mestiere del buon alleato. Non è il buon alleato quello che mostra di astenersi dal discutere la conduzione della guerra da parte di chi la combatte, sulla sua terra. Tanto meno quando il risvolto di questo rispetto presentato come rigoroso e intransigente è un comportamento di fatto che limita drasticamente l’ambito di azione di chi combatte. All’inizio dell’invasione russa e della straordinaria resistenza ucraina – il momento della sconfitta di Putin e della vittoria di Zelensky e del popolo ucraino, che così dovevano continuare a chiamarsi – era pressoché inevitabile mettere in guardia gli ucraini dall’eventuale futuro tradimento degli alleati, quello che incombe oggi sul Rojava. Era fresca, e imputata a Joe Biden, la vergognosa rotta della coalizione occidentale da Kabul, con le donne e gli uomini afghani abbandonati alla vendetta dei talebani, senza rivali se non i più fanatici dell’Isis-K. Non è successo, se non in parte. E’ successo però che Donald Trump, immune da responsabilità nella guerra d’Ucraina, e anzi titolare di un certificato di amicizia e società in affari con Putin (e, al suo modo, con Pyongyang) si presenti al resistibile ritorno con le mani completamente libere, privo di qualsiasi debito con Zelensky, al contrario, con qualche personale risentimento. Si spiega così la frase pronunciata in una secondaria intervista da Zelensky mercoledì, che ha preso i titoli di apertura in un occidente che non ne vedeva l’ora, e che ha strillato alla resa. Era piuttosto inevitabile, considerata la pervicacia con cui Zelensky andava ripetendo il suo piano per la vittoria e le sue condizioni sull’integrità territoriale del paese fin prima dell’invasione della Crimea. Pervicacia che non aveva suscitato alcuna obiezione ufficiale dagli alleati: cattivi alleati, dunque. Nessuno, letteralmente nessuno, aveva quasi tre anni fa messo in conto una simile durata della guerra, che sta per toccare i tre anni, e che da quasi due anni ha cessato di alternare la vicenda di offensive e controffensive, per mutarsi in una macchina di distruzione e logoramento, sia pure a un costo di vite altissimo per la prepotenza e l’indifferenza russa. La qualità di un leader, al di là di un momento imprevisto ed eroico, come i giorni successivi al 24 febbraio del 2022, sta nel saper misurare il cambiamento delle condizioni e nell’adattarvisi. Machiavelli lo disse meglio di chiunque, unendo poesia e profezia alla lucidità strategica, nel famoso capitolo XXV del Principe, messo di fronte alla capricciosa mutevolezza della Fortuna: “Credo ancora, che sia felice quel principe, il modo del cui procedere si riscontra con la qualità de’ tempi, e similmente sia infelice quello, dal cui procedere si discordano i tempi… Che se si mutasse natura con li tempi e con le cose, non si muterebbe fortuna”. Volodymyr Zelensky non ha mutato natura, né si può troppo incolparnelo, dal momento che l’aveva fatto traumaticamente due volte, passando dai panni dell’attore presidenziale a quelli del presidente vero, e da questi a quelli del capo di un paese aggredito e in guerra. Gli alleati non hanno saputo, loro, al riparo com’erano dal sangue versato, contribuire alla duttilità sua, e della sua coorte troppo stretta di fedeli. E prima di tutto raccomandare di tener fermo il vanto glorioso della prima resistenza che aveva umiliato la marcia trionfale dell’Armata Rossa, e della controffensiva che l’aveva ricacciata lontano da Kharkhiv e di là dal Dnipro di Kherson. “Se la Russia non vince, perde, se l’Ucraina non perde, vince”. Un peccato di gola aveva fatto invertire quel risultato raggiunto, e regalato lo slogan, e il nome della vittoria, a Putin. Il quale ha oggi, in Ucraina, il coltello dalla parte del manico. Ha incassato una bastonata micidiale in Siria, e finge di parlarne con disinvoltura – “non ho ancora incontrato Bashar…”, il suo ospite dorato e increscioso – mentre già contratta con Algeri e Tobruk il trasferimento delle basi mediterranee, esalta la riuscita economica, e annota serenamente le falle nei servizi che hanno fatto esplodere in monopattino il suo generale di parata. Carezza l’Italia, invita Trump al più presto, si dichiara maestro di compromessi, da insegnare a Zelensky, salvo ricordarsi che Zelensky è un governante illegittimo e fino a che non sia rieletto, o un altro per lui, non ci saranno negoziati né compromessi – mai, cioè. Un mai trattabile, del resto. Penso – e l’ho scritto tante volte qui, da un anno e mezzo – che Zelensky avrebbe potuto e dovuto dire alla sua gente, quelli che stanno al fronte, quelli che stanno nelle case senza luce e senza caldo, quelli che scappano o si nascondono, la frase che ha fatto intitolare i giornali di ieri, che sono disinvoltamente caduti dalle nuvole. E che avrebbe potuto (e dovuto) completare la spiegazione inconfutabile sull’impossibilità di tenere regolari elezioni nel paese in guerra, con gli uomini nelle trincee e i milioni di cittadini sfollati e rifugiati all’estero, con l’annuncio della propria uscita di scena all’indomani di una conclusione, provvisoria che fosse, del confronto armato. Non tanto per togliere un’arma di propaganda a Putin, che ne abusa, ma per riguadagnare una fiducia della sua gente, liberata dal dubbio che difenda sé e una cerchia di suoi piuttosto che il suo paese, o anche solo insieme al paese. Zelensky dovrebbe, credo, guardarsi quanto meglio sa dagli abbracci che ancora le riunioni internazionali gli concedono, e non farsene risarcire rispetto alla difficoltà che l’Ucraina vive, nella prima linea come nelle retrovie. Non è facile. Gli alleati non lo aiutano: non sono buoni alleati. E così i solidali con l’Ucraina e il suo valore, che in tanti vili vorrebbero consumato e diffamato. Solidali generosi, a rischio di somigliare ai medici ipocritamente pietosi, che fanno la ferita…
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