Più che un’internazionale di destra, ciò che sotto i nostri occhi sta prendendo forma è l’insieme più o meno variegato e non limitato alla destra vera e propria, di tutti coloro che sono stati o si sono sentiti emarginati o marginali, culturalmente o politicamente, dall’arcipelago liberal-progressista che ha costruito e portato alla vittoria contro i totalitarismi neri e rossi, l’Occidente e l’ordine mondiale liberale dal secondo dopoguerra a oggi. Mi pare sia questa la cifra che accomuna non solo la nuova destra, ma anche i soggetti politici rosso-bruni e una buona parte dei populismi che si vorrebbero “progressisti ma non di sinistra”, un ossimoro che malamente camuffa la disperata ricerca di un posizionamento non (inevitabilmente) gregario. Non è un caso che questi soggetti emergano e si rafforzino nel momento di maggiore difficoltà, fors’anche di crisi (ma dall’esito tutt’altro che scontato) delle liberal-democrazie, ovvero della dimensione propriamente liberale delle democrazie rappresentative e di mercato, alle prese con i nemici esterni (la Russia, la Cina, l’Iran) e con i nemici interni (i nazional-sovranisti, i nostalgici del comunismo, i populisti di vario genere). Ciò di cui si nutrono è il nemico comune, identificato in maniera variabile, a seconda delle opportunità e delle convenienze, nelle élite intellettuali, nell’establishment economico, nelle strutture amministrative, nei giudici, nei giornaloni e nel pensiero “mainstream”: in particolar modo di quel liberalismo che per alcuni di loro è un nemico giurato, mentre per altri è il panno nobile con cui ammantare ben meno eleganti pulsioni. Entrambi esibiscono pseudo-ideologie dotate solo di una pars destruens e monca di qualunque pars contruens e alimentata dal furore: no, non quello ideologico, ma quello della folla, che si eccita e si tira di qua e di là, ché neppure nel girone degli ignavi di dantesca memoria si era mai vista una simile frenesia priva di sbocco. L’assenza dell’ideologia è la grande novità di questo neo-giacobinismo affollato di piccoli Robespierre il cui scopo non è però il trionfo della “Rivoluzione”, ma semplicemente la perpetuazione carriere politiche o persino giornalistiche, dei Saint-Just da tastiera maestri di volgarità e collezionisti di querele, in un tatticismo esasperato, privo di strategia perché quest’ultima non è semplicemente inutile, ma è proprio impossibile quando non si ha in mente un’idea organica, compiuta e coerente di paese e, alla fin fine, di politica. Così, mentre ad Atreju – dove il kitsch ed il cafonal non sono mancati, insieme al familismo e all’ossequio alla progressiva familiarizzazione di quello che si voleva fosse uno dei pochi partiti politici rimasti sulla scena nostrana – si esaltava il liberismo selvaggio dell’argentino Milei, negli Stati Uniti si chiama il trilionario Musk nella stanza dei bottoni dell’amministrazione Trump. Tutto sempre nel nome del mercato (e chi potrebbe aver niente da obiettare?), ma in realtà con assai poca considerazione del mercato stesso e, quel che più conta, con nulla logica e men che meno coerenza liberale. Fa sorridere l’ovazione riservata a Milei dai militanti di un partito che sta tenendo l’Italia impastoiata sul limitare di un processo di infrazione per difendere gli interessi corporativi dei balneari – “inchioderemo lo straniero sul bagnasciuga!”, deve aver pensato la presidente del Consiglio, che poi sarebbe la battigia, ma va be’’” – o quelli dei tassinari o più in generale dei milioni di evasori diffusi “taglieggiati dal pizzo di Stato”, (sic.). E d’altronde, guardando Oltreoceano, investire come paladino del mercato chi, anche grazie ai sussidi di Stato e ai contratti pubblici ha assunto una posizione dominante sul mercato che lo snatura e ne fa un monopolista non appare più coerente. Siamo alla riedizione delle parole d’ordine degli anni Settanta e Ottanta, come se nel frattempo non fosse trascorso mezzo secolo e la realtà circostante non fosse radicalmente cambiata. Nel capitalismo globalizzato di oggi è molto più la deriva monopolistica a creare una minaccia per la vitalità del mercato di quanto fosse vero cinquant’anni fa. E mettere nella stanza del regolatore politico l’esponete di uno dei più forti tra gli interessi da regolare appare una pratica che forse Vladimir Putin o Xi Jinping potrebbero definire liberale. Oggi semmai l’azione dello Stato ha molto più necessità di essere razionalizzata e reindirizzata che non di essere tagliata. Il declino delle ideologie, con la loro a volte pedante e rigida pretesa di ortodossia, ha finito spesso, col decretare il “liberi tutti!” in termini di coerenza e di necessaria adesione tra la realtà desiderata e la realtà effettuale. Peccato che i programmi politici, in tal modo, diventino nel migliore dei casi un libro dei sogni e nel peggiore un catalogo di incubi. Certo è che diventa aleatorio attendersi qualunque elaborazione culturale e politica davvero nuova e originale, adeguata ad affrontare i tempi di ferro che ci aspettano e la cui anticipazione stiamo già drammaticamente vivendo. Ma di questo non sembra volersi preoccupare nessuno, o quasi nessuno.
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