“Ho risolto 6 guerre in 6 mesi, una delle quali era un possibile disastro nucleare”, ha scritto il presidente americano Donald Trump sulla sua piattaforma Truth, poco prima dei vertici con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e con i leader europei. Lo sta ripetendo in continuazione, come base per la rivendicazione del premio Nobel per la Pace che lo ossessiona. Il mese scorso ha addirittura telefonato al ministro delle Finanze norvegese Jens Stoltenberg per ricordargli che al premio ci tiene. La crisi con armi nucleari menzionata sarebbe quella tra India e Pakistan, che vide scontri e bombardamenti tra il 7 e il 10 maggio. Trump la rivendica come un grande successo negoziale della Casa Bianca, ma l’influenza americana sulla tregua in Kashmir non è così chiara. I leader pachistani hanno ringraziato Trump e lo hanno proposto al premio Nobel per la Pace “per i suoi tentativi di de-escalation del conflitto tra India e Pakistan”. Eppure i rappresentanti del governo indiano hanno smentito questa versione, e rivendicato più volte che il cessate il fuoco era stato deciso direttamente tra i due paesi. Il gesto pachistano è apparso più come una richiesta di benevolenza da parte di Islamabad, che Trump ha assecondato perché soddisfaceva il suo ego. Ma questa versione ha finito per danneggiare lo sforzo dell’ex presidente Joe Biden di tirare il primo ministro indiano Narendra Modi dentro l’asse occidentale di contenimento della Cina. Trump poi ha rivendicato il cessate il fuoco tra Israele e Iran, da lui annunciato il 25 giugno per porre fine a una guerra che era iniziata il 13 giugno. È singolare che una “pace” di questo tipo sarebbe stata raggiunta da Trump dopo aver bombardato l’Iran e i suoi siti nucleari. L’8 luglio il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto a Trump che lo avrebbe proposto per il premio Nobel per la Pace. Un accordo di pace vero e riconosciuto dalle parti è stato quello siglato il 27 giugno scorso a Washington tra Ruanda e Repubblica democratica del Congo, in base al quale il Ruanda ha ritirato le sue truppe dalla parte orientale della Rdc in cambio della fine dell’appoggio di Kinshasa ai ribelli delle Forze democratiche per la Liberazione del Ruanda. L’intesa è stata salutata da Trump come “un trionfo glorioso per la causa della pace” e prevede anche investimenti statunitensi nelle miniere congolesi di oro, rame e litio. Bisognerà ovviamente vedere se regge. Comunque, anche dal presidente congolese Félix Tshisekedi è arrivata la proposta di dare a Trump il premio Nobel per la Pace. E lo stesso ha fatto il governo cambogiano, dopo che il 28 luglio era stato raggiunto un cessate il fuoco nel conflitto di confine con la Thailandia iniziato il 23 luglio, anche se la mediazione vera l’avevano fatta Malaysia e Asean. Trump aveva fatto sapere di avere telefonato ai due leader il 26 luglio, minacciando entrambi con i dazi. Resta però la sensazione che il presidente americano abbia voluto mettere il proprio sigillo su un processo già avviato, mentre il governo cambogiano abbia colto l’occasione per un compiacente allineamento in stile pachistano. Una simile dinamica di condiscendenza si potrebbe intravedere anche nelle parole della presidente del Kosovo, Vjosa Osmani, che ha confermato – dopo l’intervista di Trump a Fox News in cui rivendicava di aver scongiurato una guerra tra Kosovo e Serbia – di aver ricevuto lo scorso maggio “informazioni specifiche” su possibili azioni serbe al confine. Da parte sua, però, Belgrado ha sempre negato di avere piani militari. L’8 agosto scorso a Washington è stata firmata anche una pace tra Armenia e Azerbaigian, che dovrebbe porre fine alla guerra per il Nagorno Karabakh iniziata nel 1988. C’è stata una stretta di mano “a tre” fra il presidente azero Ilham Aliyev, il primo ministro armeno Nikol Pashinyan e lo stesso Trump, l’annuncio dei primi due che avrebbero proposto il premio Nobel per la Pace al terzo, e anche l’istituzione di un corridoio di transito che si chiamerà “sentiero Trump per la pace”. Ma di fatto l’accordo sancisce la sconfitta dell’Armenia, e non è dunque considerato di buon auspicio dagli ucraini. Non a caso Hillary Clinton, nel dire a sorpresa che approverebbe un premio Nobel per la Pace per Trump nel caso in cui riuscisse a fermare la guerra in Ucraina, ha pure precisato: una pace ma senza cessioni territoriali da parte di Kyiv. Quella di Putin sarebbe la settima guerra che Trump direbbe di avere risolto dall’inizio della sua ultima presidenza. Ma ne rivendica anche una ottava, quella che riguarda il contenzioso tra Egitto ed Etiopia per la costruzione della grande diga sul Nilo, su cui Trump ha detto di essere al lavoro. Solo che i negoziati sono fermi.
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