Tel Aviv. Con l’inizio dell’operazione militare in Iran e la crescente minaccia missilistica da parte della Repubblica islamica, Moshe Bar Siman Tov, il ministro della Sanità di Israele, aveva raccomandato di evacuare i dipartimenti meno recenti – e quindi i più fragili – delle diverse strutture ospedaliere israeliane. Così ieri sera, Shlomi Codish, il primario dell’ospedale Soroka di Beersheba, aveva deciso, nonostante la complessità dell’operazione, di evacuare tutti i ricoverati presso il vecchio edificio chirurgico del loro istituto, nel parcheggio sotterraneo. “Un miracolo”, ha dichiarato ai media israeliani questa mattina, quando alle 7.10, ora locale, una raffica di 30 missili balistici ha attaccato tutto Israele. Tre di questi hanno colpito gravemente l’hinterland di Tel Aviv (il quartiere della Borsa, il quartiere arabo di Jaffa e la periferia di Holon) e uno l’ala appena evacuata dell’ospedale Soroka, principale bacino di utenza del sud di Israele e del deserto del Negev, per un totale di un milione di utenti, tra cui la maggior parte della comunità beduina israeliana. L’ospedale al momento ha chiuso le porte, eccetto per casi di emergenza estrema. Il Magen David Adom – “la Stella di Davide Rossa”, equivalente della croce rossa israeliana – ha subito predisposto una serie di autobus di terapia intensiva per trasferire i pazienti nei centri medici nel resto di Israele, fino a quando la struttura non verrà riaperta, solo dopo il permesso ufficiale da parte delle autorità. Il personale ospedaliero di Soroka è costituito, sia tra i medici che tra gli infermieri, dal 25 per cento di operatori di nazionalità arabo-israeliana, come del resto in tutte le strutture del paese. Tutta la popolazione araba, così come quella palestinese nel West Bank, in questi giorni di conflitto è stata colpita in modo massiccio, come il resto della popolazione israeliana: quattro donne arabe (due madri e le loro figlie) hanno perso la vita durante il primo giorno di attacchi. Da ormai una settimana i missili del regime iraniano stanno colpendo indiscriminatamente tutto il paese, con lo scopo specifico di mirare alla popolazione civile. Come nel caso di Nastia Borik, bambina ucraina di sette anni, arrivata in Israele da Odessa, con la sua famiglia, scappando dalla guerra in Ucraina, per ricevere cure salvavita in uno dei migliori ospedali israeliani. Nstia era arrivata in cerca di vita per poi perderla in un altro conflitto. E' stata uccisa – insieme alla madre Maria, ai giovani cugini Konstantin e Ilya e alla nonna Lena – da un missile iraniano che ha colpito un edificio residenziale a Bat Yam (nella periferia di Tel Aviv), dove erano stati ospitati come rifugiati politici, mentre il padre di Nastia era rimasto a combattere in Ucraina. Un’intera famiglia aggrappata alla speranza, bruciata viva dai missili degli ayatollah, lanciati deliberatamente contro persone innocenti, proprio come chi lavora giorno e notte nelle strutture ospedaliere per salvare le vite di chi viene recuperato dalle macerie. Stando alle stime dichiarate dalle autorità israeliane, dall’inizio del conflitto hanno perso la vita 24 civili, un migliaio sono rimasti feriti, oltre ad alcuni dispersi che si stanno ancora cercando tra le rovine.
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