Ravana è un personaggio del Ramakien, versione thailandese del poema epico indiano Ramayana. Incarna la figura del re sciocco, sovrano facilmente ingannabile, governato dall’ego, dalla lussuria e dalla rabbia. Nella notte tra il 12 e il 13 dicembre, Ravana sarà apparso a qualche vecchio cultore della mitologia Indo-buddhista. In quelle ore, infatti, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump dichiarava unanimemente che la pace tra Cambogia e Thailandia era stata ripristinata dopo i suoi colloqui telefonici col primo ministro thai e quello cambogiano. Dichiarazione degna di Ravana perché, poco prima dell’alba del 13 dicembre, il ministero della Difesa cambogiana accusava la Thailandia di aver impiegato due caccia F-16 per bombardare un hotel e un ponte. Attacco confermato dal primo ministro thai Anutin Charnvirakul. Il giorno seguente, mentre i combattimenti continuavano, Trump sdrammatizzava la situazione sul suo Truth Social ma il ministro degli esteri thai Sihasak Phuangketkeow liquidava i suoi post scrivendo che “non riflettono una accurata comprensione della situazione”. Non è la prima volta che il presidente Trump dichiara la pace. Era già accaduto il 26 ottobre a Kuala Lumpur, quando aveva trionfalmente assistito alla firma di una semplice tregua ottenuta minacciando o promettendo nuovi dazi. Pochi giorni dopo anche quella tregua veniva infranta e lo stesso Anutin dichiarava che “Non mi interessa come possano andare dazi o tariffe. Se non potremo vendere negli Stati Uniti, troveremo un altro”. Per chiarire il suo pensiero, Anutin aveva accompagnato il Re e la Regina nella loro storica visita di stato in Cina. Giorno dopo giorno, mentre aumenta il numero dei morti e dei feriti e quasi ottocentomila persone hanno abbandonato le loro case, la guerra appare sempre più la rappresentazione di un dramma della tradizione asiatica, con intermezzi da opera buffa come la reginetta di bellezza cambogiana che rivendica l’originalità del costume nazionale respingendo le insinuazioni che sia copiato da quello thai. La scena, ormai, si sta allargando su tutti gli indefiniti 800 chilometri di confine. In gran parte coperti da foresta, sono il campo d’azione degli uomini dell’ottava divisione cambogiana, temuti dai thailandesi perché li credono protetti da rituali di magia nera. La tensione è traboccata dalla terra al mare del Golfo di Thailandia, acque ritenute ricche di gas naturale e petrolio, in parte “Overlapping Claims Area”, aree di rivendicazioni concorrenti, dove la Royal Thai Navy vuole istituire un blocco navale e da dove bombarda le coste cambogiane. Il centro dell’azione sono le rovine degli antichi templi khmer, che secondo i thailandesi sono usati per occultare basi militari nemiche, e le decine di centri per le truffe online gestiti da reti criminali legate alle élite cambogiane. Se le rovine sono una sorta di scudo culturale, i centri scam offrono protezione in quanto strutture costruite come vere e proprie fortezze. I centri scam in Cambogia sono uno dei detonatori della guerra: le accuse di corruzione e coinvolgimento di alcuni politici thai nelle organizzazioni criminali che le gestiscono sono tra i fattori che hanno determinato la crisi di governo. Amplificata dalle critiche per la gestione dell’emergenza creata dalle alluvioni nel sud del paese, la crisi è stata il pretesto colto dal premier per sciogliere il parlamento l’11 dicembre, aprendo la via a elezioni anticipate (che dovrebbero svolgersi nel febbraio 2026). L’ondata di nazionalismo diffusa tra tutta la popolazione era un’opportunità che non poteva lasciarsi sfuggire, tanto più che potrebbe contare sull’appoggio dei militari che in questo momento appaiono detentori di quell’autorità morale che vale più della competenza. La guerra è utile anche sul fronte cambogiano. Serve a Hun Sen e suo figlio Hun Manet, il nuovo premier, per consolidare il potere in forma quasi assoluta. Senza contare che qui le centrali scam producono oltre dieci miliardi di dollari l’anno, che in buona parte vanno a finire nelle tasche dei crony legati al governo, il che spiega perché l’ex premier Hun Sen, il Grande Vecchio cambogiano, abbia alimentato la tensione in risposta alla stretta thailandese sulle scam. Ma questa non è semplicemente una drôle de guerre di stampo quasi tribale tra potentati locali. Fa parte di un nuovo grande gioco asiatico che ha implicazioni globali nel commercio e nello sfruttamento delle risorse e che in Cina rientra nella strategia della Via della seta. In tutto questo sarebbe stato necessario un personaggio come Kissinger con la sua preveggente strategia asiatica. Invece c’è Trump, il cui capolavoro asiatico è stato la “National Security Strategy” resa pubblica il 4 dicembre, un manifesto per il ridimensionamento strategico secondo la sua visione personale: nelle 32 pagine del documento il sud-est asiatico appare solo due volte, facendo sospettare che sia relegato a merce di scambio. È per anticipare questa prevedibile strategia e in risposta alla politica dei dazi, che il Vietnam, il maggior antagonista della Cina nell’area, nel luglio di quest’anno ha effettuato la prima manovra militare congiunta con l’esercito cinese. La Thailandia, come s’è visto, sembra pronta a seguire questa nuova alleanza con Pechino. Il che potrebbe rappresentare un problema ancor maggior per gli Stati Uniti considerando che qui era stabilita una delle maggiori basi della Cia fuori dei confini nazionali. L’unica pedina utile agli Stati Uniti nell’area potrebbe essere la Cambogia sinora nell’ombra cinese. Hun Manet si è formato all’accademia miliare di West Point e ha dimostrato la sua disponibilità dichiarandosi pronto a sostenere la candidatura di Trump al Nobel per la pace.
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