Se nella seconda Amministrazione Trump dovesse esserci un nuovo assalto ai palazzi del potere, come quello del 6 gennaio 2021, stavolta l’edificio a essere preso di mira non sarà il Campidoglio, saldamente nelle mani dei repubblicani. A rischiare l’assedio ora è un austero complesso che si affaccia sul Mall, di fronte al celebre memoriale per i caduti del Vietnam e a due passi dal dipartimento di stato. E’ la sede della Federal Reserve, la Banca centrale americana. L’ufficio di Jerome Powell, che come presidente della Fed ha davanti a sé ancora due anni di mandato che si preannunciano turbolenti. La nomina del miliardario degli hedge fund Scott Bessent a ministro del Tesoro verrà accolta probabilmente con favore da Wall Street, ma manda un segnale di sfida alla Fed. Perché la volontà di Donald Trump di “cambiare le cose a Washington” e aumentare in modo significativo il potere presidenziale potrebbe portare presto la Casa Bianca e il Tesoro in rotta di collisione con la Banca centrale. La politica di dazi, tagli fiscali e deregolamentazione che Trump vuol mettere in campo potrebbe scontrarsi con le scelte di Powell e della Fed e portare a galla uno dei propositi dell’agenda “America first” trumpiana: limitare la storica indipendenza della Banca centrale americana. Bessent da questo punto di vista non ha mai nascosto come la pensa. Un mese fa ha lanciato l’idea di creare un “presidente ombra della Fed” che ridurrebbe enormemente l’operato di Powell, in attesa che si dimetta. Con conseguenze tutte da scoprire sui mercati. Fin dalla sua istituzione nel 1913, per mettere ordine nel turbolento sistema finanziario americano, la Federal Reserve è stata protagonista di bracci di ferro con governi repubblicani e democratici. L’operato della Banca centrale fu sottomesso alle scelte dell’esecutivo nella Seconda guerra mondiale, per esigenze belliche, ma nel 1951 fu siglato un accordo tra Tesoro e Fed che da allora ha garantito la massima indipendenza a quest’ultima in tema di politica monetaria e gestione dei tassi d’interesse. Adesso che sta per cominciare un secondo mandato di Trump che si preannuncia per molti versi rivoluzionario, quell’indipendenza sarà messa a dura prova. Molto dipenderà dall’inflazione. Se, come credono numerosi economisti, il massiccio ricorso ai dazi sulle importazioni provocherà un aumento dei prezzi per gli americani, Powell e il suo board potrebbero agire sui tassi con modalità che Donald Trump non gradirebbe. E il quarantasettesimo presidente ha già detto con chiarezza che almeno nei primi due anni, fino a quando avrà il pieno controllo del Congresso, vuol avere mano libera per attuare la sua ricetta a base di protezionismo. Il mandato dell’attuale presidente della Fed, nominato da Trump nel 2018 come successore di Janet Yellen, scade nel 2026. Il neonominato ministro Bessent ha già fatto sapere di non essere, al pari del presidente, un fan della libertà di manovra della Banca centrale. La sua idea, radicale e al limite dello scontro istituzionale, è che se Powell creerà problemi, la Casa Bianca indicherà in anticipo il suo successore, che potrà dare indicazioni “informali” ai mercati in veste di presidente-ombra designato della Fed. Uno scenario che potrebbe avere ripercussioni enormi sui mercati e anche sul valore del dollaro. Trump ha quasi completato la squadra economica del suo secondo governo ed è evidente che tutto nei primi mesi dell’Amministrazione si giocherà sul tema dei dazi. C’è grande incertezza su quanto saranno vasti e cosa andranno realmente a colpire. Il presidente-eletto ha parlato di tassare dal dieci al venti per cento i beni importati dall’estero, elevando la percentuale al sessanta per cento e oltre per quelli in arrivo dalla Cina. Bessent pochi giorni fa, su FoxNews, si è detto pienamente d’accordo, probabilmente anche per aumentare le proprie quotazioni agli occhi di Trump in un momento in cui Elon Musk invece avversava il manager degli hedge fund, ritenendolo troppo “business as usual” per la nuova Amministrazione. “Per troppo tempo – è il giudizio di Bessent – il pensiero dominante ha rigettato l’uso dei dazi come strumento sia di politica economica sia di politica estera. Invece, nella tradizione che fu già di Alexander Hamilton, non dovremmo essere impauriti dal potenziale che hanno i dazi di migliorare il tenore di vita delle famiglie e delle imprese americane. I dazi – ha proseguito il futuro ministro – servono al presidente anche per raggiungere i suoi obiettivi su scala internazionale. Che si tratti di spingere gli alleati a spendere di più per la difesa, aprire mercati alle esportazioni dagli Stati Uniti, cooperare per bloccare le immigrazioni illegali, bloccare i traffici di fentanyl o scongiurare aggressioni militari, i dazi possono giocare un ruolo centrale”. Una visione che svela la natura negoziale che l’Amministrazione Trump intende dare all’utilizzo della tassazione sugli scambi internazionali. In molti a Washington sono convinti che i dazi, alla fine, verranno utilizzati come dice Bessent come strumento non solo per la politica commerciale, ma più in generale per trattare anche in chiave di politica estera. “Penso che Trump alzi la posta per poter negoziare, soprattutto nei confronti dell’Europa, con la quale non credo si andrà verso guerre commerciali ad alta intensità”, dice per esempio al Foglio Lorenzo Montanari, vicepresidente per gli Affari internazionali di Americans for Tax Reform, la roccaforte del libero mercato nata ai tempi di Ronald Reagan e guidata da Grover Norquist. Il mondo conservatore antitasse non vede certo di buon occhio il ricorso ai dazi, “per noi sono semplicemente tasse sui consumatori”, spiega Montanari. Ma spera che lo choc che potrebbe provocare una guerra dei dazi tra gli Stati Uniti e il Messico o la Cina abbia l’effetto collaterale di “riaprire invece con l’Europa un percorso da tempo abbandonato come quello del Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip)”, l’accordo che stava emergendo negli anni di Barack Obama e che fu messo in crisi dalle guerre commerciali della prima Amministrazione Trump. Bessent, assieme al nuovo ministro del Commercio Howard Lutnick, dovrà chiarire presto se davvero c’è spazio per negoziare sui dazi di Trump e dovrà convincere i mercati che quella che ha in mente l’Amministrazione è una politica economica di crescita senza provocare inflazione. Trump si è detto convinto che il nuovo capo del Tesoro lo aiuterà “a inaugurare una nuova età dell’oro per gli Stati Uniti, mentre rafforziamo la nostra posizione di economia più importante al mondo”. Bessent a suo avviso è l’uomo giusto nonostante sia stato in passato il braccio destro dell’odiato George Soros. Trump per sceglierlo come ministro del Tesoro ha ignorato il parere di Musk e anche un po’ di musi lunghi tra i repubblicani più conservatori, non entusiasti di avere in un governo Maga (Make America Great Again) populista un miliardario gay con un marito e padre di due figli avuti con maternità surrogata. Resta da vedere se Powell e la Fed si metteranno o no di traverso, di fronte ai piani dell’“età dell’oro” promessa da Trump. Per ora il presidente della Banca centrale si è limitato a rispondere, secco, che la Casa Bianca non ha il potere di rimuoverlo fino alla fine del suo mandato. “Ma tanto – ha commentato Bessent – a nessuno tra poco importerà niente di quello che ha da dire Jerome Powell”. Nel frattempo i dazi stanno già provocando un altro tipo di “inflazione” a Washington: quella di lobbisti e avvocati. Per quanto Trump prometta nel secondo mandato di prosciugare la capitale e svuotarla di tutta la sua burocrazia, l’esperienza della sua prima Amministrazione ha insegnato che i dazi non saranno uguali per tutti. Negli anni del precedente governo Trump erano state create una molteplicità di eccezioni e deroghe alla tassazione delle importazioni di beni come l’acciaio e c’era stata molta disparità rispetto a quali paesi e quali beni colpire con i dazi. Ne era nata una industria di lobbisti e studi legali specializzati nel gestire i rapporti con Casa Bianca e Congresso, ingaggiati dalle multinazionali e dai vari governi stranieri che volevano essere esentati dalla tassazione. Il fenomeno, secondo il New York Times, si sta ora ripetendo su scala assai più vasta. Gli studi su K Street, la strada dei lobbisti, stanno già ricevendo un’ondata di mandati da tutto il mondo da parte di chi chiede scorciatoie e corsie preferenziali per evitare i dazi. Mentre Elon Musk è al lavoro per cercare il modo di svuotare Washington e ridurre il peso dell’apparato federale, la capitale così rischia invece di aumentare le dimensioni della propria burocrazia e della popolazione di addetti ai lavori che ruota intorno alle agenzie governative. I dazi tanto amati da Trump, alla fine, renderanno Washington “great again”?
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