Trump è come sappiamo del tutto imprevedibile, ma l’incontro di 100 minuti con Xi Jinping all’aeroporto di Busan, in Corea del sud, è comunque una grande novità. Da marzo a oggi, Trump ha avuto modo di misurare che le reazioni di Pechino alle sue minacce di dazi sui prodotti cinesi fino al 125 per cento sono immediate e durissime, a cominciare dal bando dell’export delle terre rare che mette in ginocchio la manifattura americana e mondiale. La conseguenza è che a Busan il tono è del tutto cambiato. Xi si è presentato dicendo che Usa e Cina devono essere partner e amici, e che il commercio è deve restare la base reciproca non solo del loro rapporto, ma della stabilità mondiale. Ha reso atto a Trump di aver sbloccato lo stallo a Gaza. E in cambio dell’abbassamento al 47 per cento dal 57 per cento cui erano già fatti scendere i dazi americani alla Cina, e analogamente di 10 punti in meno anche sul fentanyl da sempre sbandierato da Trump come la più stragista tra le droghe consumate dagli americani, Xi ha sospeso per un anno il bando all’export di terre rare, con la solita aggiunta per cui la Cina si riserva comunque di ripristinarlo se per caso Trump tornasse a roteare l’ascia di guerra. Trump ha anche aggiunto che la Cina si impegnerà ad accrescere l’import energetico dagli Usa (il sottinteso è che scenda il suo import di gas e petrolio dalla Russia), e a comprare enormi quantità di soia, annuncio per tenersi buoni gli agricoltori americani. Mentre scriviamo, nessuno di questi due impegni è stato ancora confermato dalle fonti cinesi. La domande da porsi sono plurime. È davvero una svolta duratura? O è solo una tregua? Che conseguenze entrambe le ipotesi comporterebbero per noi e per l’Europa? I toni a Busan in realtà non sciolgono il primo dilemma. Apparentemente sembrerebbero profilare più di una semplice tregua temporanea. Esprimono il reciproco bisogno di un dialogo permanente ai più alti livelli politici dei due paesi, dialogo che in un anno costruisca nuove basi per una cooperazione strutturale di lungo periodo. Ipotesi confermata dalla visita che Trump dovrebbe compiere in Cina la prossima primavera, seguita da una visita reciproca di Xi a Washington fortemente voluta da Trump. E’ una rinuncia allo scontro energico anticinese cui Trump aveva uniformato il suo primo mandato? L’escalation dei dazi americani annunciati da Trump fino a luglio scorso sembrava del tutto in linea con i suoi toni del 2017-20. E ora si torna alla scuola kissingeriana del realismo, per cui la Cina è troppo forte e importante, come economia ormai molto avanzata e per il rafforzamento del suo strumento militare, per non dover invece preferire un rapporto di competizione sì, ma ancorata e misurata su uno stretto reciproco confronto permanente? Gli ultimi sette anni hanno profondamente diviso il dibattito politico ed economico americano sulla Cina. Per approfondire, consigliamo la lettura del bellissimo libro di David Shambaugh "Breaking the Engagement: How China Won & Lost America". L’avvento del Maga ha accresciuto gli adepti della scuola “la Cina da decenni ci ha fregato, mira a sostituire gli Usa economicamente e militarmente come leader mondiale”. Chi ne è convinto è pronto a sostenere che Trump deve stare attento, perché anche a Busan i toni di Xi sono solo serviti a prendere altro tempo a vantaggio di Pechino. Ma questa corrente di pensiero non ha affatto sconfitto la scuola “del dobbiamo competere ma cooperando in ogni campo, dal commercio alle tecnologie all’equilibrio militare”, scuola ancora fortissima nell’accademia e nel deep state americano. “Un rapporto di empatia strategica”, lo definisce l’ex generale Herbert Raymond McMaster, consigliere nazionale per la sicurezza nella prima amministrazione Trump. C’è poi invece chi apertamente sostiene la convenienza di una vera e propria partnership tra Usa e Cina, come l’ex segretario al Tesoro Henry Paulson: tesi che nasce dalla consapevolezza che l’eccellenza tecnologica cinese e il suo dominio di input fondamentali per la produzione sia andata tropo avanti, perché gli Usa possano credere di venirne a capo con le minacce. Come si vede, ciascuna di queste tesi si differenzia nelle risposte da dare, ma si tratta dei darle sempre alla stessa domanda: come comportarsi nella “trappola di Tucidide”, quella che porta alla guerra del Peloponneso per l’incapacità di un meccanismo regolatorio della competizione tra una potenza consolidata e una in energica ascesa? Nessuno può immaginare che Busan nasca da una vera e propria “revisione strategica” del pensiero di Trump. Sappiamo che la sua Amministrazione non decide coinvolgendo economisti e consiglieri sulla base della loro competenza, quel che conta è solo l’esclusiva e piena lealtà al presidente. E tuttavia Busan è stata per Trump una fredda presa di coscienza del fatto che lo scontro aperto con la Cina è diventato troppo rischioso e costoso per gli interessi critici degli Stati Uniti, economici e militari, per non richiedere invece un dialogo transazionale con regole di rivalità controllata, nella speranza che la transizione cinese di fronte ai suoi problemi economici interni avverta la stessa necessità. Se così fosse, non sarebbe una vera e propria svolta strategica come quella che gli Usa hanno perseguito verso la Cina dagli anni Settanta del secolo scorso fino al 2016. Trump a Busan certo ha dato una bella spolverata alla sua ambizione di leader apicale capace con le sue minacce di riportare la Cina al dialogo diretto tra i due leader. Come per Xi una visita trionfale a Washington metterebbe in formalina la sua torva parata al fianco di Putin, e contornato da autocrati sanguinari e umili leccapiedi. Ma in realtà quello di Busan sarebbe solo un armistizio a tempo, per verificare se davvero gli Usa riescano nei loro passi avanti per l’autosufficienza nel settore dei chip e per costruire catene di approvvigionamento alternative per le terre rare. In fondo, anche le concessioni di Xi a Busan sono tattiche e a tempo, non strutturali. E a favore della tesi armistiziale e non della svolta vanno anche altri fattori: a Busan Trump si è guardato bene dall’affrontare temi strutturali come i massicci sussidi statali cinesi, il furto di proprietà intellettuale e la spinta statale verso il dominio tecnologico. I mesi prossimi diranno se sarà tregua o svolta. Ma in entrambi i casi, per noi e per l’Europa restano problemi seri. L’Europa non ha in alcun modo nei confronti della Cina il potere negoziale economico e militare di Trump. Le manifatture di Europa e Italia sono fortemente dipendenti da catene di fornitura estere, ed è ovvio visto che siamo un continente trasformatore. Ma a contare sono soprattutto le dipendenze critiche strategiche, quelle che provengono in percentuale elevata da paesi a rischio geopolitico, o che hanno raggiunto una posizione pressoché monopolistica su materie prime e beni intermedi necessari alle nostre produzioni. Siamo dipendenti su minerali nobili e terre rare, semilavorati, farmaci e additivi chimici, fonti energetiche, semiconduttori avanzati, batterie e pannelli solari. Delle 378 materie prime e beni semilavorati più critici per la manifattura italiana, ben 179 non sono comuni a Francia e Germania, che hanno realizzato “catene corte” a differenza dell’Italia che le ha allungate nel mondo visto la nostra maggior diversificazione manifatturiera. E il problema numero uno è che, per il 45 per cento di tutte le nostre dipendenze più critiche, il fornitore pressoché obbligato è la Cina. In settori oggi decisivi, come l’intelligenza artificiale, Ict e rinnovabili, su terre rare essenziali per i microprocessori avanzati, batterie ad alta potenza e fotovoltaico, la nostra dipendenza dalla Cina supera il 70 per cento. E’ stato un errore molto grave per l’Europa assistere senza batter ciglio per oltre 20 anni alle politiche protezionistiche e all’estendersi delle reti di accaparramento di materie prime da parte dei cinesi in tutto il mondo. Errore aggravato da scelte autopunitive come il Green Deal con cui abbiamo spalancato alla Cina il mercato europeo dell’auto, come lo abbiamo spalancato all’acciaio di Cina e India. Con tutto il rispetto per gli interventi che la Commissione Ue annuncia per accrescere l’autonomia dell’industria europea nei confronti della Cina, in Italia ed Europa possiamo solo sognarci le risorse finanziarie che gli Usa stanno impegnando su questo fronte. Ergo, visto che ci manca la forza di Trump, non ci resta che sperare a Busan sia avvenuta una svolta vera, e non solo un breve armistizio. Perché in caso di ripresa di scontro commerciale violento tra Usa e Cina noi saremmo i primi perdenti.
Continua a leggere su "Il Foglio"