Ieri, a sorpresa, la Repubblica popolare cinese ha dato il via a una mobilitazione navale, aerea e della Forza missilistica per un’esercitazione militare attorno all’isola di Taiwan dal nome in codice esplicito, “Missione di giustizia 2025”. E’ l’ennesima escalation della leadership di Pechino, che ha aumentato la pressione militare su Taiwan e contro chi vorrebbe proteggere l’indipendenza de facto dell’isola: il Giappone della prima ministra Sanae Takaichi, ma anche le Filippine e soprattutto – secondo i media cinesi – la Casa Bianca di Donald Trump, che nonostante l’appeasement nei confronti del leader Xi Jinping il 18 dicembre scorso ha autorizzato una vendita record di armamenti a Taipei da quasi 11 miliardi di dollari. Le esercitazioni cinesi simulano un blocco navale attorno all’isola e sono le più estese e articolate mai avvenute prima. Nei giorni scorsi Pechino aveva imposto sanzioni, piuttosto cosmetiche, anche contro venti aziende americane del settore della difesa legate alla vendita di armi a Taiwan. Queste esercitazioni, però, che dureranno fino a domani, rappresentano un’escalation: anzitutto perché questo non è il consueto periodo di esercitazioni navali per la Cina, che preferisce la primavera per via delle acque meno agitate attorno allo Stretto, ma soprattutto perché le aree interessate dal fuoco vivo dei giochi di guerra sono molto più ampie: sette aree complessive, cioè tutte quelle necessarie a interrompere completamente le rotte marittime di Taiwan verso le due isole più vicine alla costa della Repubblica popolare, le Kinmen e le Matsu, oltre che verso il resto del mondo. “Per motivi di sicurezza, si raccomanda a qualsiasi imbarcazione o aeromobile non pertinente di non entrare nelle acque e nello spazio aereo sopra menzionati”, ha fatto sapere il comando cinese. L’analista K. Tristan Tang, uno dei fondatori del Taiwan Defense Studies Initiative, ha scritto che, sebbene “il linguaggio utilizzato nelle dichiarazioni ufficiali rispecchi in gran parte quello delle precedenti operazioni militari su larga scala dell’Esercito popolare di liberazione contro Taiwan”, c’è una differenza significativa che riguarda l’“esplicita menzione della deterrenza e del contenimento multidimensionali lungo la linea esterna”, che nel linguaggio politico-militare significa impedire l’accesso a uno spazio più ampio e su più livelli. Secondo diversi analisti militari non si tratta più soltanto di prove di accerchiamento, ma di manovre mirate a scoraggiare qualsiasi intervento esterno. Il colonnello Shi Yi, portavoce del comando del Teatro Orientale, lo ha detto chiaramente: “Questo è un serio avvertimento alle forze separatiste che sostengono l’indipendenza di Taiwan e alle forze di interferenza esterne”. Il ministero della Difesa di Taiwan ha detto di aver istituito un centro di risposta, di stare conducendo esercitazioni per addestrarsi al combattimento immediato e di aver fatto alzare in volo aerei da ricognizione per monitorare i movimenti cinesi. Il leader Xi Jinping, che negli ultimi mesi ha dovuto affrontare enormi problemi all’interno dell’Esercito popolare di liberazione, tra purghe e tradimenti, sa che questo è un momento propizio per aumentare la pressione e rendere Taiwan politicamente inoffensiva agli occhi dell’opinione pubblica, contando sul fatto che Trump vuole un accordo commerciale, non uno scontro. Questo ammorbidimento, però, non piace a una parte dell’elettorato trumpiano. Steve Yates, tornato analista della Heritage Foundation e sostenitore di Trump, ha scritto ieri su X che la situazione è “fuori controllo a questo punto. Una coercizione non provocata di un nodo vitale delle catene di approvvigionamento globali, per non parlare di 23 milioni di buoni vicini e attori responsabili. Prima o poi i veri leader del mondo dovranno smettere di trattare questo comportamento e quel governo come se fossero normali”. All’azione muscolare, cioè quella militare, la leadership cinese ne sta promuovendo anche una mediatica: articoli, grafiche, locandine propagandistiche. L’Esercito popolare di liberazione ha pubblicato sul social cinese Weibo un video in cui si vede un drone volare sul Taipei 101, la torre simbolo della capitale taiwanese – secondo molti esperti un video creato con l’IA – accompagnato dal commento: possiamo arrivare in qualunque momento. Il Global Times, quotidiano in lingua inglese del Partito comunista cinese, è stato costretto a spiegare il significato simbolico e politico dell’illustrazione diffusa dalla Guardia costiera cinese, in cui Taiwan è circondata da una corda rossa da ormeggio, “simbolo di sovranità, unità nazionale e futura riunificazione”, che rappresenta la volontà della Cina di contenere e “stringere” le forze indipendentiste taiwanesi. Le esercitazioni servono a far parlare della potenza di fuoco cinese, ma anche a mandare un messaggio capace di convincere l’opinione pubblica usando soprattutto i social network, e di raggiungere quindi la maggioranza delle persone che si informa prevalentemente lì. Ieri Lin Jian, portavoce del ministero degli Esteri, ha pubblicato su X, social censurato in Cina, un video con una didascalia falsa: “Tutti i paesi che hanno relazioni diplomatiche con la Cina riconoscono Taiwan come parte della Cina”. Non è vero: molti paesi, compresi gli Stati Uniti, intrattengono relazioni informali molto fruttuose con Taiwan e adottano un’interpretazione più sfumata del riconoscimento. Il video dovrebbe dimostrare quanto sostiene Lin: si vedono diversi leader dichiarare che Taiwan non esiste e che è una provincia cinese, ma scorrendo i volti compaiono soltanto capi di governo la cui sopravvivenza politica ed economica dipende dalla Cina: da Aleksandar Vučić, presidente serbo, a Robert Fico, primo ministro slovacco, fino a Shehbaz Sharif, primo ministro pachistano, e al palestinese Mahmoud Abbas (che dice di aver sempre sostenuto la Cina “nella realizzazione della riunificazione nazionale”, affermazione curiosa per il leader di un territorio che cerca riconoscimento). Compaiono poi i leader di Kazakistan, Malaysia, di Grenada, Cuba, Nauru. L’altro ieri, in un’intervista alla Tass, anche il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha confermato l’allineamento di Mosca a Pechino e ha detto che “riconosce Taiwan come parte integrante della Cina e si oppone a qualsiasi forma di indipendenza dell’isola”. Il rischio è che lentamente il messaggio cinese sulla legittimità delle proprie rivendicazioni possa davvero sedimentarsi nell’opinione pubblica occidentale, così come è accaduto con quello russo sull’“abbaiare della Nato” ai suoi confini.
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