Giusto due anni fa, quando lo intervistammo per questa rubrica dopo l’eccidio perpetrato da Hamas il 7 ottobre, l’avvocato di Tel Aviv Dror David Nahum disse che l’obiettivo dei miliziani non era combattere “il nemico sionista” né “liberare la Palestina occupata”, ma il puro omicidio di massa (con annessi stupri e rapimenti) degli ebrei. Adesso che la guerra militare è vinta, Dror, che cura gli interessi di importanti scrittori ed è legato all’Italia da ascendenze familiari, conferma quelle convinzioni ma le accompagna a un’amara considerazione: la sconfitta di Israele nel campo della comunicazione. Con pesanti conseguenze per la diaspora ebraica e sulla società occidentale. Nelle piazze, nelle università, sui social network è montato un sentimento di profonda ostilità verso Israele difficilmente contrastabile. Dall’operazione “Spade di Ferro” in poi, il mondo sembra essersi rivoltato contro Israele. L’antisemitismo è ai massimi livelli, mai così forte dal tempo dei nazisti, perché è stato alimentato da una valanga di menzogne quali sono le accuse di “genocidio”, di “carestia intenzionale” e altri crimini inventati. Perché lo stato di Israele non ha prodotto una controinformazione più efficace? Prima ragione: la mancanza di coordinamento istituzionale. In Israele non c’è un’unica struttura incaricata della lotta alla disinformazione e all’odio online. I ministeri, gli uffici del portavoce di governo e del primo ministro agiscono separatamente, spesso in modo scoordinato o persino competitivo. Il risultato è un mosaico di messaggi disorganici, privi di strategia comune e di coerenza. Seconda ragione: scarsi investimenti e risorse insufficienti. Mentre Iran, Turchia, Qatar spendono centinaia di milioni di dollari nella propaganda pro-palestinese, Israele destina fondi minimi alla comunicazione internazionale. Poche decine di persone devono fronteggiare un esercito di troll, bot e influencer ostili attivi in tutte le lingue. Con tanti miei amici ho passato notti intere a contrastare le bugie sui social rischiando sempre di essere bannato, ma siamo volontari che operano di propria iniziativa contro la marea di fake news. Una lotta decisamente impari, senza supporto statale, senza una regia comune né una linea narrativa unificata. Le iniziative civiche di influencer, studenti, organizzazioni ebraiche finiscono per andare disperse. È curioso che disponendo di tecnologie così sofisticate Israele soccomba nello scontro virtuale. Purtroppo la comunicazione del governo resta ancorata ai modelli del passato, ossia le conferenze stampa, i comunicati, le interviste, mentre oggi la battaglia si combatte su TikTok, Instagram, YouTube. Molti paesi dispongono di schiere di content creator e influencer, ma Israele solo adesso comincia a rendersi conto di quanto potere abbia un video virale di trenta secondi. Siamo vissuti nell’illusione che “la verità parla da sé”. Che basti presentare i fatti perché il mondo capisca, ma nell’èra delle emozioni e delle immagini non è la verità che vince. Prevale la narrazione più coinvolgente. Non basta avere ragione: bisogna raccontarla bene, creare empatia, toccare il cuore. In queste cose eccellono i nemici di Israele. Una menzogna può fare milioni di visualizzazioni in pochi minuti e purtroppo devo citare Goebbels: una bugia ripetuta tante volte diventa verità. Netanyahu non lo ha compreso? È impegnato a scrollarsi di dosso le responsabilità per il disastro del 7 ottobre e a districarsi dai processi per corruzione ancora pendenti. È vero che il governo ha profuso il suo impegno sul piano militare, ma è stato grave lasciare che l’opinione pubblica internazionale fosse inondata di terribili bugie. Hanno fatto da miccia all’antisemitismo, con il risultato che la sicurezza e la dignità degli ebrei sono minacciate ovunque. La diaspora ebraica fa le spese di questa irresponsabile leggerezza, costretta com’è a fronteggiare le falsità senza alcun sostegno istituzionale. Intanto il Qatar finanzia università in tutto il mondo, a Manchester si accoltellano gli ebrei nello Yom Kippur e l’occidente scende nelle piazze per “il popolo palestinese”, facendo propria un’accezione che elaborò Arafat per giustificare il terrorismo. Le piazze italiane si sono mobilitate anche con lo sciopero generale. Credo che Gaza sia stata più che altro un pretesto per manifestare contro il governo Meloni. Ora che Hamas, siglata la tregua, sta uccidendo decine di palestinesi per regolare i conti a modo suo, nessuno manifesta per loro. Greta, la Albanese, quelli della Flotilla tacciono. In che misura questo conflitto inciderà sull’occidente? Dovrebbe essere chiaro che non è una guerra per il territorio “dal fiume al mare”, ma una guerra di religione: Hamas non mira a uno stato palestinese ma allo sterminio degli ebrei. E Israele a sua volta è parte di un piano più vasto. Non è difficile capire che è in corso un’invasione islamica dell’Europa. Verrà conquistata senza carri armati, con la demografia. Entro pochi anni la Svezia sarà musulmana e in Francia, Gran Bretagna, Germania molti immigrati anche di seconda generazione preferirebbero la sharia allo stato di diritto. Stanno usando la democrazia liberale per demonizzarla, ma naturalmente contro chi dice queste cose scatta l’accusa di islamofobia, ossia di una paura o un’avversione irragionevoli. Come se l’11 settembre, gli orrori dell’Isis e il 7 ottobre non bastassero a legittimare i timori.
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