La Casa Bianca non è mai stata un edificio immutabile sin dai tempi della sua progettazione a opera di James Homan, architetto di origine irlandese, che vinse nel 1792 la competizione per disegnare la residenza del presidente americano, inaugurata il 1° novembre 1800 dal presidente John Adams. Quindi l’aggiunta di una grandiosa sala da ballo da parte della seconda amministrazione di Donald Trump deve essere messa nel giusto contesto storico. Già a quattordici anni dall’inaugurazione, infatti, la Casa Bianca era in cenere, bruciata dagli invasori britannici nel corso della cosiddetta guerra del 1812. E nel 1817 rieccola pronta per accogliere un nuovo inquilino presidenziale, con l’aggiunta di due nuovi porticati nel 1824 e nel 1829. Quest’ultimo è stato inaugurato da uno dei miti dell’attuale presidente, Andrew Jackson, forse il primo populista che con la retorica incendiaria aveva abbandonato l’elegante eloquio dei Padri Fondatori. Da allora però si possono individuare poche modifiche sostanziali: in primis quella del 1902 attuata da Teddy Roosevelt per dare uno stile più unitario e aggiungere la celebre West Wing che ospita gli attuali spazi destinati all’esecutivo. Poi quella del 1961 con l’aggiunta di vari oggetti d’arte e legati alla storia dei presidenti scelti dalla First Lady Jacqueline Kennedy per dare una maggior coerenza storica visibile a occhio nudo. Senza dimenticare il Rose Garden, cementificato quest’anno da Donald Trump per renderlo più simile al patio di Mar-a-Lago e per evitare che i tacchi delle ospiti affondassero nel prato verde. Tutto questo però in anticipazione della costruzione di una grandiosa sala da ballo per i banchetti presidenziali dei suoi successori, fatta salva l’improbabile abolizione del secondo emendamento della Costituzione americana che proibisce un terzo mandato presidenziale. L’aggiunta di fatto sarebbe la più grande di sempre, con oltre 8mila metri quadri a disposizione e 650 posti a sedere, uno spazio quasi da sovrani d’antico regime più che “primo servitore del popolo americano” come si pensava George Washington che rifiutò definizioni pompose come “Lord Protettore delle Libertà” legate alla carica. Ci sono delle inevitabili controversie sul costo di 250 milioni di dollari, ma Trump sostiene che saranno finanziati da imprecisati “donatori privati”. Quella che però non è stata rispettata è la promessa di non intaccare la struttura storica della Casa Bianca. E invece alcuni dipendenti del dipartimento del Tesoro, dagli uffici da dove si scorge la Casa Bianca, hanno postato delle foto delle ruspe che stanno abbattendo i muri della East Wing. Evidentemente l’impatto ci sarà, anzi, è già un dato di fatto. Uno scoop del Wall Street Journal però ha rivelato una mail interna che intima agli impiegati di non diffondere le foto sui social network. Classico provvedimento che cerca di chiudere la stalla dopo la fuga dei buoi. Le immagini della Casa Bianca demolita, sostengono alcuni esponenti democratici come la senatrice Tina Smith, “sono simbolici dei tempi in cui viviamo”, ha scritto la politica del Minnesota sui social. Il portavoce della Casa Bianca Steven Cheung ha fatto una scrollata di spalle definendo i critici degli “sfigati” che devono capire che anche gli edifici storici hanno le necessità di essere “rinnovati”. Molto più del dovuto, a quanto hanno potuto vedere i dipendenti del Tesoro prima di venire redarguiti dai loro superiori. Come se ci fosse una consapevolezza del valore simbolico della Casa Bianca demolita, un obiettivo cercato da molti nemici dell’America, come ad esempio dai terroristi islamici che hanno dirottato il volo United 93 l’11 settembre 2001, fallito grazie alla rivolta dei passeggeri di quel velivolo. E in un certo senso simboleggia proprio quanto sostenuto dai dem: Trump vuole rifare l’America, a cominciare da uno dei suoi simboli, a sua immagine e somiglianza. Lo si vede dalla natura aggressiva e irridente dei post sui social dell’account ufficiale della Casa Bianca, molto lontani dal contegno istituzionale dei suoi predecessori. GettyImages
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