Orbán, Macron, Meloni. Sánchez, Merz, Fico. Von der Leyen. Oggi questi leader, domani vedremo. Però, indipendentemente dai nomi, una domanda rimane: cosa è l’Europa in questa fase storica? C’è qualcuno che potrebbe dire di saper rispondere con sicurezza? Ci sono due persone che darebbero la stessa risposta? Un’entità economica? Sicuramente. Una struttura burocratica? Non vi sono dubbi. Un’entità politica? E qui nasce un problema. Cosa rappresenta? Chi rappresenta? Quanto è davvero rappresentativa? Questi sono tutt’altro che interrogativi oziosi nell’epoca dei grandi rivolgimenti mondiali. Che tipo di ruolo politico può giocare l’Europa? Per essere un’entità politica bisogna avere diversi requisiti: istituzionali, economici, di rappresentanza, di sicurezza, etc. Ma, prima di tutto ciò, si deve rispondere a una domanda più germinale. Cosa è questa entità? Cosa vuole essere? Cosa deve fare per diventare ciò che vuole? Queste domande hanno tutte a che fare con un concetto che è stato interamente rimosso: l’identità. L’Europa, semplicemente, non sa chi sia né cosa voglia essere. L’Europa ha scelto di rimuovere la questione dell’identità alcuni decenni fa. Episodio simbolico, almeno per noi italiani, fu sicuramente il rifiuto del parlamento europeo di ratificare la nomina di Rocco Buttiglione a commissario europeo nell’ormai lontanissimo 2004 per via delle sue posizioni da cattolico sull’omosessualità. Poi venne un Papa che volle chiamarsi come il santo protettore dell’Europa, Benedetto, che su questo tempo ha posto un memorabile sigillo di fallimento sottraendosi da esso con una rinuncia. Poi sulle radici greche e giudaico-cristiane dell’Europa sono stati scritti fiumi di parole, spesso retoriche. Ora questo orizzonte non sembra più neppure oggetto di dibattito. Semplicemente non esiste più una discussione attorno alle radici d’Europa, da dove venga, cosa sia, cosa voglia, cosa si aspetta. Si è presunto di poter generare un’entità politica dal continente più storico e più spirituale dell’umanità attraverso un dominio del tecnico e della sua burocrazia. Che tale strada sia fallimentare sembra evidente. La volontaria autodissoluzione della propria storia non ha lasciato spazio a nulla. Il rifiuto delle radici storiche-filosofiche-religiose dell’Europa è stato probabilmente un movimento unico con il grigio laicismo privo di speranza, ma pieno di buoni sentimenti, che via via si è impadronito del continente. Indietro non si può andare. Le nostalgie reazionarie sono buone per riempire ampolle lacrimevoli e commemorative con cui benedire i propri personali altarini, o sono simulacri di rancore per la gioventù perduta. Ma se l’Europa vorrà essere davvero qualcosa, da inevitabili europeisti non possiamo prima non vederla per ciò che è oggi: una struttura antistorica, incapace di essere davvero rappresentativa di qualcuno e di qualcosa, priva di capacità politica, svuotata di qualsiasi forza ideale. Una gigantesca escrescenza burocratica che dà vita a figurine politiche, l’ultima Ursula von der Leyen dopo il confuso Juncker, del tutto fuori scala nel ruolo di “capi” dell’Europa, o forse perfettamente adatti proprio per la vacuità del ruolo. Il tentativo di darsi un’identità attraverso politiche economico-burocratiche per cavalcare lo spirito dei tempi, che sempre viene inseguito e mai determinato, è rappresentato dalla mostruosità senza pari del Green Deal. Un orrore ideologico che ha messo in ginocchio la principale industria europea, l’Automotive, alla folle ricerca di emissioni zero per il nostro continente mentre tutto intorno a noi miliardi di persone si avviano verso l’entrata nella ricchezza (dalla povertà sono usciti da un pezzo) attraverso i fumi civilizzatori delle loro ciminiere al carbone. Ideologia pura, il Green deal, attraverso cui si cerca nel delirio verde un’identità che si è voluta negare. Poi è arrivata la guerra, e una struttura macchinosa, irrigidita e fragile ha mostrato tutta la sua inconsistenza militare e soprattutto politica. Incapace di fare la guerra quanto incapace di fare la pace. Abile solo a proclami risibili. Ora, inevitabilmente, si parla di riarmo. Ma anche qui si insegue. Come? Quando? In che modo? Tutti insieme o separati? Kubilius, commissario europeo alla Difesa, parla di spendere 6.800 miliardi di euro nei prossimi anni per il riarmo. 6.800 miliardi. Vabbè. E i debiti pubblici? E la tassazione soffocante nei confronti di quella che è l’immagine plastica dello slancio verso il futuro che è l’iniziativa dei privati? Così, giusto per dire due cose che hanno a che fare con il buon senso dell’economia domestica. Il punto, però, appare un altro. Il riarmo, prima di essere effettivo, con polvere da sparo e tecnologia dual use e tutto quello che c’è nel mezzo, deve essere identitario, spirituale. Altrimenti, cosa ci riarmiamo a fare? Per difendere cosa? Per difendere il marchingegno burocratico che è diventata l’Unione europea? Non credo che un singolo cittadino si sacrificherebbe per Bruxelles. Ci riarmiamo per difenderci. Ma per difendere cosa? Non siamo riusciti a capire la guerra che Israele ha fatto a Gaza perché non capiamo che cosa significa fare una guerra per difendere un diritto a esistere, una volontà di esserci, di non cedere, di affermare la propria identità contro chi vuole sottrarcela. Qui, siamo diventati senza storia, senza identità e senza quella parola guida che dovremmo rimettere al centro dell’agenda europea che è “spirito”. Ma lo spirito non è altro che ciò che si fa. Non è altro che ciò che innerva le nostre azioni. Lo spirito è l’idea che abbiamo dell’essere umano, di chi sia, di cosa sia. Lo spirito è l’idea che innerva tutto ciò che facciamo. E oggi, lo spirito, in Europa, tace.
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