“Mi hanno tolto la libertà, ma non la voce". Le prime interviste di Boualem Sansal

24/11/2025 18:21 Il Foglio

Parigi. Nelle parole di Boualem Sansal, rientrato a Parigi martedì scorso dopo un anno nelle carceri di Algeri con l’accusa di “attentato all’unità nazionale”, non c’è nessun risentimento, ma solo una grande lucidità sulle battaglie per la libertà che restano da combattere. Lo scrittore franco-algerino, 81 anni, ha i capelli corti e il volto emaciato dalla durezza dell’esperienza carceraria di Koléa, la prigione dei dissidenti del regime di Abdelmadjid Tebboune, ma la stessa voce dolce, la stessa intelligenza vivace. È a France 2, al Figaro e a France Inter che il romanziere ha deciso di rilasciare le sue prime interviste da “homme libre”. “Sto bene. Mi è stato diagnosticato un cancro alla prostata. Sono stato curato in modo eccellente da medici coscienziosi che hanno fatto più del loro dovere. Sono uscito dalle loro mani in buona salute”, ha raccontato domenica sera su France 2, la sua prima apparizione mediatica dopo il carcere. Interrogato sulle condizioni di detenzione a Koléa, ha risposto così: “Ero tagliato fuori dal mondo. La vita in prigione è dura, il tempo è lungo, ci si esaurisce, ci si stanca, ci si sente morire”. Dopo un anno di carcere, ha affermato Sansal, è “complicato” ritrovare la libertà, “la vita, i profumi, i sussurri, cose che non si capiscono bene”. E c’è la paura. “Controllo ogni mia parola. Ho paura per la mia famiglia, ho paura che arrestino mia moglie. Penso a Christophe Gleizes (giornalista sportivo francese detenuto in Algeria con l’accusa di “apologia di terrorismo, ndr) e non è l’unico. Ci sono decine di detenuti politici per motivi assurdi”. L’incubo per Sansal è iniziato il 16 novembre 2024. Volo Air France Parigi-Algeri. “Dopo essere sceso dall’aereo su cui ero salito a Parigi, prendo un taxi per tornare a casa e l’agente della polizia doganale mi ferma. Mi chiede il passaporto. Guarda il suo schermo e capisco che sta succedendo qualcosa. Mi chiede il nome di mio padre, quello di mia madre, mi dice di andare a sedermi. Aspetto mezz’ora, poi arriva di corsa un ufficiale. Prende il mio passaporto e il mio telefono e mi dice di seguirlo. Mi porta nei sotterranei dell’aeroporto. È incredibile cosa ci sia sotto un aeroporto, un’intera città. Passiamo in un luogo dove c’erano una trentina di militari equipaggiati come per una guerra spaziale. Deve far parte della normale sicurezza. Poi mi portano in un ufficio e mi chiudono dentro. Erano le 17.30 e non è successo nulla fino all’una di notte”, ha raccontato al Figaro Sansal.   A un certo punto, un gruppo di uomini dall’aspetto minaccioso fa irruzione nell’ufficio in cui è rinchiuso lo scrittore, si avvicinano e lo ammanettano. “In quel momento le manette non mi hanno fatto nulla. Ma poi, ripensandoci, mi sono sentito profondamente umiliato. Usciamo dall’aeroporto, saranno le 2 del mattino. In un parcheggio buio, salgo su un’auto, c’è un autista, mi mettono il cappuccio e l’auto parte. Sono tra due poliziotti, l’autista e l’ufficiale che era accanto a lui. Penso che fosse l’ufficiale perché aveva una certa autorità sugli altri. E poi partiamo. A un certo punto, dico loro: ‘Quando mi taglierete la gola? Nel bosco o per strada?’. Mi è venuto da dire così. Ridevano. ‘No, non tagliamo la gola alla gente’, hanno risposto. ‘Va bene, cosa mi farete?’. Silenzio. E poi continuiamo a guidare, guidiamo. Non sapevo dove fossimo. Abbiamo viaggiato per un’ora. Poi, a un certo punto, l’auto sembrava percorrere vicoli, quartieri. Si ferma, poi sento un cancello che si apre, molto rumore. L’auto avanza. Sento il rumore dei cancelli che si chiudono. E lì mi fanno uscire dall’auto, mi tolgono il cappuccio. Sembrava il cortile di una prigione. Mi fanno entrare in un ufficio, mi spogliano, mi prendono la borsa, il telefono. E poi mi chiudono in una stanza vuota. Niente finestre, niente materasso, niente di niente. E questo è durato sei giorni”, prosegue Sansal.   Durante l’interrogatorio, in carcere gli viene mostrata una foto dell’ex presidente della Repubblica Nicolas Sarkozy. “È un suo amico? Lo conosce?”, gli chiedono. “Rispondo che è una foto scattata durante un ricevimento con sua moglie, me e due o tre amici. ‘Di cosa parlavate?’ ‘Di un po’ di tutto’ (…). Durante quei sei giorni non avevo alcuno status. Sono stato rapito, sequestrato. Da chi? Non lo so. Ho posto la domanda mille volte, ma ogni volta si sono rifiutati di identificarsi. Ho detto loro: ‘Finché non vi identificate, non risponderò alle vostre domande’ (…). No, non rispondevo. È durato sei giorni, con otto-dieci ore di interrogatorio al giorno. Estenuante”, ha dichiarato al Figaro. Poi, l’arrivo a Koléa, a trentacinque chilometri da Algeri. “Ho scoperto questa immensa prigione costruita dai cinesi. È recente, risale solo a una ventina di anni fa. E nel quartiere di massima sicurezza (…). I primi giorni sono stato trattato come qualsiasi altro prigioniero. Ma a un certo punto deve esserci stato un intervento di Emmanuel Macron, che fin dal primo giorno ha chiesto il mio rilascio ‘immediato e incondizionato’. Ha parlato pubblicamente del disonore dell’Algeria. Hanno capito che bisognava fare qualcosa. Sicuramente sono state date delle istruzioni, probabilmente dallo stesso presidente Tebboune o dal suo gabinetto.   Da quel momento in poi, sia in ospedale che in prigione, ho ricevuto un trattamento ‘VIP’”, rivela lo scrittore franco-algerino, che ha condiviso la cella con un infermiere francofono con un passato da poliziotto. In carcere, Sansal, ha scoperto il soprannome che gli algerini gli avevano affibbiato per il suo coraggio: “La Légende”. “È bello, sì. Significava: ‘È un oppositore del regime che ha il sostegno dell’Europa, della Francia, degli Stati Uniti, del pianeta Marte’. Lo sentivo dire nel box in cui mi trovavo...”, dice Sansal. Il “box” è un’unità carceraria, un corridoio con quattro celle una di fronte all’altra, due detenuti per cella per un totale di sedici, e si può arrivare a diciotto perché quando ci sono prigionieri temporanei possono occupare un terzo posto. Dietro le sbarre di Koléa, Sansal si è fatto dare carta e penna e ha scritto dieci volte al presidente Tebboune. “Gli ho spiegato che l’unica soluzione era liberarmi, riconciliare l’Algeria con la Francia. Gli ho detto che il suo paese era completamente isolato e che la sua unica possibilità era la Francia, cosa in cui credo profondamente... Gli ho riferito del trattamento disumano riservato ai prigionieri”, racconta. Con la moglie, Naziha, l’unica autorizzata a fargli visita, si vedeva ogni quindici giorni, per trenta minuti, “colloquio registrato, al telefono, separati da una vetrata”. “In quei casi, la gestualità conta tanto quanto le parole”, testimonia Sansal. A Koléa c’era anche una biblioteca.   “Leggevo libri che richiedevo per iscritto indicando il mio numero di matricola: 46611. Venivano a prendermi e mi portavano in una biblioteca, molto grande e molto bella. Ma l’arabizzazione aveva lasciato il segno, così come il rancore nei confronti della Francia. C’erano molti Corani e libri sull’islam. Il novanta per cento dei volumi. E poi, sparsi qua e là, i sopravvissuti del periodo francese. Ho trovato alcuni libri in condizioni relativamente buone. Notre-Dame de Paris, di Victor Hugo. Adoro questo libro: l’ho letto due volte. Mentre il mondo intero scopriva la cattedrale di Parigi risorta, io leggevo il romanzo nella mia prigione. Ho letto Maupassant, che è stato in Algeria e ha visitato il mio villaggio natale, che ho lasciato quando avevo sei mesi. Ha scritto pagine sublimi sul mio villaggio. E poi ho letto uno dei miei autori preferiti: Montherlant”, dice il romanziere, che aveva accesso a una televisione “in cui la Francia è sempre colpevole, in cui viene sottolineata ogni minima debolezza del nostro paese e in cui i membri della France insoumise (il partito della sinistra radicale, ndr), Jean-Luc Mélenchon, Mathilde Panot e Rima Hassan, vengono celebrati come eccellenti francesi”.    L’11 novembre scorso intuisce che sarebbe stato scarcerato nel giro di poche ore. “Hanno raccolto le mie cose e ho capito che sarei stato liberato. Vedevo gente andare e venire con grande agitazione. Sono stato nell’ufficio del direttore dell’ospedale. C’era un signore anziano, molto elegante... E lì ha iniziato a farmi la morale. Mi ha detto, in sostanza, che nell’ipotesi in cui fossi stato liberato, avrei dovuto trarne insegnamento e non denigrare più il nostro paese. L’ho ascoltato. Come ad altri, gli ho detto che poteva trattenermi se voleva, ma che se avessi riottenuto la libertà, avrei riottenuto anche quella di pensiero e di parola”, racconta Sansal, augurandosi che “le relazioni franco-algerine si plachino e escano dai tormenti storici e memoriali per tornare alla normalità”. A France Inter, lo scrittore ha evocato il suo desiderio di tornare un giorno in Algeria. “Devo tornarci perché quando subisci un’ingiustizia, è naturale cercare di ottenere riparazione. Non ho bisogno di soldi, né di un nuovo processo. Il solo fatto di andarci e tornarne indietro, per me, è una riparazione”, ha detto lo scrittore. Laggiù ha lasciato anche il suo telefono e il suo computer, che contengono i ricordi di una vita e forse i primi appunti del suo prossimo libro.

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