“Siamo venuti qui, nel cuore dell’America, per cercare di portare la pace nel cuore dell’Europa”. Così l’allora segretario di stato americano Warren Cristopher annunciò l’inizio di quel negoziato che, tenutosi per tre settimane nella base aerea Usaaf Wright-Patterson di Dayton, nell’Ohio, portò esattamente trent'anni fa agli accordi che posero fine alla guerra in Bosnia-Erzegovina. Anche se la sanzione formale del General Framework Agreement for Peace (Gfap), meglio conosciuto come Protocollo di Parigi, sarebbe venuto il 14 dicembre successivo, appunto nella capitale francese. All'Eliseo furono presenti, oltre a Bill Clinton, i presidenti di Francia, Jacques Chirac, il premier britannico John Major, il cancelliere tedesco Helmut Kohl e il primo ministro russo, Viktor Chernomyrdin. Abbastanza marcata è la differenza tra il clima di allora, con l’attivo intervento degli Stati Uniti per porre termine – pur con necessari compromessi – a un conflitto che turbava il clima di pace che in Europa si era stabilito dalla fine della Seconda guerra mondiale; e la situazione di oggi, con le incertezze su un “piano in 28 punti” trattato da due faccendieri per porre fine all’altro conflitto che ha riportato l’Europa a panorami da Grande guerra. Due mesi prima, a partire dal 30 agosto e fino al 20 settembre, la Nato aveva anche condotto la campagna militare aerea Operazione Deliberate Force contro le forze della Repubblica serba di Bosnia Erzegovina, per imporre la trattativa. Avevano poi partecipato un po’ tutti al complesso negoziato: stipulato nella città natale degli inventori dell’aereo fratelli Wilbur e Orville Wright, e dopo una cerimonia inaugurale in un Hope Hotel che di fatto accennava a una speranza, anche se era solo in onore di Bob Hope. Attore britannico naturalizzato statunitense famoso per i suoi spettacoli alle truppe statunitensi. C’erano infatti il presidente jugoslavo Slobodan Milošević, il croato Franjo Tuđman, il presidente della Bosnia Erzegovina Alija Izetbegović, il suo ministro degli Esteri Muhamed “Mo" Sacirbey”, il mediatore statunitense Richard Holbrooke, l'inviato speciale dell'Unione europea ed ex primo ministro svedese Carl Bildt e il viceministro degli Esteri della Federazione Russa Igor' Ivanov. Ora, invece, si continua a fare colloqui e proposte senza tirarci dentro la più diretta interessata Ucraina. Per conciliare il principio della intangibilità delle frontiere uscite dalla Seconda guerra mondiale con le pulsioni che stavano agitando l’Europa del post-comunismo, si ribadì che i confini amministrativi non potevano essere toccati, anche se l’intera entità amministrativa considerata poteva esercitare un diritto all’autodeterminazione. Dunque l’intera Germania Est aveva deciso di entrare nella Germania Ovest e invece le repubbliche costitutive delle federazioni di Jugoslavia, Urss e Cecoslovacchia potevano andare ognuna per conto proprio, ma la Bosnia-Erzegovina non avrebbe dovuto essere mutilata a favore di Serbia o Croazia. Il contrario delle voci di oggi su Donbas o Crimea. E però all’interno dello stato di Bosnia-Erzegovina avrebbero essere dovuto create due entità: Federazione croato-musulmana, col 51 per cento del territorio bosniaco (92 municipalità); e Repubblica Srpska, col 49 per cento del territorio (64 municipalità). La Slavonia Orientale, occupata dai serbi, avrebbe dovuto tornare alla Croazia. E a tutti i profughi era concesso di fare ritorno presso i propri paesi di origine. Caschi Blu avrebbero dovuto garantire il tutto. Anche qui, in marcata differenza con quanto vediamo ora accadere in Donbas e Crimea. Articolata su una presidenza collegiale con un serbo, un croato e un musulmano che si alterano ogni otto mesi, due strutture federate, una Camera con 24 deputati eletti nella Federazione e 14 nella Srpka, un Senato con 5 membri per ognuna delle tre etnie, la Costituzione consociativa della Bosnia-Erzegovina post Dayton ha sempre funzionato a fatica. Questo stesso anniversario arriva in un clima di rinnovata tensione per il rifiuto del leader serbo-bosniaco Milorad Dodik di ottemperare alle disposizioni dell'Alto rappresentante europeo, Christian Schmid: la figura creata 30 anni fa per garantire la supervisione dell'intesa. In particolare, Dodik ha insistito su leggi volte a una possibile indipendenza delle istituzioni regionali rispetto a quelle nazionali. Anche qui, col togliergli sanzioni imposte nel 2022 il ruolo di Trump è stato di marcata rottura con quello esercitato dagli Usa in passato. Comunque Dodik è stato destituito, e un nuovo presidente della Srpska viene eletto domenica. Però quella Costituzione, pur a fatica, continua a funzionare. Con Dayton si pose così termine a un conflitto che era durato tre anni e otto mesi, aveva fatto oltre 100.000 morti, aveva provocato a Srebrenica il primo genocidio in Europa dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale ed aveva visto il duro assedio di Sarajevo, che aveva turbato l’opinione pubblica mondiale. “Dal punto di vista della capacità tecnico-negoziale e dell’obiettivo prioritario di far tacere le armi, gli accordi di Dayton si potrebbero ben definire, estendendo il concetto di ottimo paretiano alla teoria delle relazioni internazionali, un tentativo riuscito di Pareto optimal peace basato sull’assunto che un accordo ottimale per ognuna delle parti era impossibile a quello stadio estremo del conflitto” è un giudizio che viene dato da Michael Giffoni, che era stato appunto nella rappresentanza italiana a Sarajevo, prima di diventare capo della task-force per i Balcani dell’Alto rappresentante per la Politica estera Ue Javier Solana e primo ambasciatore d’Italia in Kosovo. “Quando sono arrivato a Sarajevo nel 1994 avevo 29 anni, ed ero un giovanissimo diplomatico”, ci ricorda. “A Sarajevo ci sono rimasto cinque anni fino al 1999, in vari ruoli. Quello iniziale era di vice capo della delegazione diplomatica speciale. Non c'era un'ambasciata, ma era la stessa cosa: allora si usava questa formula per istituire queste delegazioni diplomatiche speciali nei posti di nuova indipendenza, nei paesi in guerra e in altre situazioni particolari. Nel 1996 sono passato nell'ambasciata come primo segretario, ma poi pochi mesi dopo proprio per la mia conoscenza della situazione sono stato chiamato all'ufficio di Carl Bildt per l'applicazione degli accordi di Dayton, dove sono stato vice capo e poi capo del dipartimento politico per tre anni fino al 99”. Proprio per questa esperienza è stato interpellato da varie testate sul recente scandalo sui cecchini italiani a Sarajevo. “Queste dei Sarajevo Safari sono voci che venivano riportate dall’unico giornale che riusciva a uscire nella città durante l’assedio. Stranieri di varie nazionalità che venivano portati sulle alture circostanti Sarajevo assediata e messi in postazioni da dove potevano sparare”. “Anche noi abbiamo vissuto sotto assedio”, ricorda. “Avevamo uno status diplomatico che valeva poco in quelle situazioni, perché anche noi eravamo sotto assedio. Avevamo i soldi ma non sapevamo come utilizzarli, perché non si trovava cibo”. “Molti ricorderanno anche la storia dei militari dell’Onu presi in ostaggio dai serbo-bosniaci, legati ai pali”. “Fu dopo la seconda strage di civili del mercato, il 24 agosto 1995, che la Nato si convinse a effettuare per la prima volta un vero e proprio bombardamento delle postazioni dei serbo-bosniaci a Pale e nei dintorni di Sarajevo”. E da lì partì la trattativa diplomatica. “Il negoziato è stato perfetto e in quel momento ha raggiunto un obiettivo che nessuno si sarebbe aspettato. Soprattutto noi che eravamo sul terreno. Quando sembrava che tutto stesse per fallire Clinton ci ha messo la faccia, mandando il segretario di stato Warren Cristopher. Sì, allora la Russia contribuì. Ma era quella di Eltsin”.
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