Gli ostacoli alla pace tra Russia e Ucraina, nonostante Trump

07/02/2025 05:01 Il Foglio

Sono trascorse 24 ore, ma anche molto di più, e la risoluzione del conflitto russo-ucraino promessa dal presidente americano Donald Trump resta un miraggio. Un esito del tutto prevedibile. Nel frattempo, i mass media si riempiono di speculazioni sulle possibili formule di pace che Trump potrebbe proporre a Vladimir Putin, delle reazioni dei leader europei ben consapevoli che si tratta della sicurezza europea, che a loro volta non vogliono essere esclusi dal negoziato mentre si moltiplicano le interpretazioni delle interviste rilasciate dall’inviato speciale americano per l’Ucraina, Keith Kellogg. In questa cacofonia di dichiarazioni – da un lato l’Amministrazione americana, dall’altro la Nato e l’Unione europea, che sembrano ancora procedere senza una strategia chiara – emergono due attori con obiettivi opposti ma ben definiti: l’Ucraina e la Russia. Negli ultimi mesi, l’Ucraina si è distinta per una diplomazia astuta e attentamente calcolata.  Kyiv ha alternato proposte concrete e lusinghe rivolte a Donald Trump e al suo entourage già prima delle elezioni americane, presentando o un “piano per la vittoria” mirato a evidenziare i vantaggi strategici ed economici che Washington potrebbe ottenere sostenendo l’Ucraina nella sua difesa. Questa strategia si riflette anche nelle recenti dichiarazioni di Trump sulla cooperazione tra Stati Uniti e Ucraina nel settore delle terre rare, un’intesa che prevederebbe in cambio garanzie di sicurezza e un flusso costante di armamenti americani verso Kyiv. A conferma di questa linea diplomatica, il New York Times aveva riportato che il presidente Zelensky avrebbe ritardato la firma di un accordo sulla cooperazione per i minerali critici con l’Amministrazione Biden, con l’obiettivo di consentire a Trump di rivendicarne il merito una volta insediato alla Casa Bianca. Inoltre, il leader ucraino si è detto aperto alla possibilità di un negoziato, a condizione che l’Ucraina si trovi in una posizione di forza tale da prevenire future invasioni russe nel caso di un accordo sul cessate il fuoco. Zelensky è convinto che sia Mosca a non volere realmente la fine del conflitto, dunque perché opporsi all’idea del dialogo? “Trump si troverebbe nella stessa situazione in cui mi sono trovato io nel 2019, quando ho cercato con ogni mezzo diplomatico di raggiungere un accordo con Putin per porre fine alla guerra nel Donbas, senza successo”, ha dichiarato recentemente Zelensky in un’intervista. L’approccio ucraino sembra dunque basarsi su un calcolo strategico ben preciso: adottare una “pazienza strategica”, lasciando che Trump tenti il dialogo con Putin, pur sapendo che l’esito di tale negoziato è prevedibile per chi conosce bene il presidente russo. In altre parole, nessun accordo verrà raggiunto. A quel punto, la vera incognita sarà la reazione di Trump. Secondo la maggior parte degli analisti, il presidente americano è fondamentalmente disinteressato alle dinamiche europee e considera la guerra in Ucraina un problema dell’Europa. Di conseguenza, il rischio concreto è che sia incline ad abbandonare Kyiv al proprio destino. Ovviamente, prevedere le mosse future di Trump è un’impresa complessa, anche perché la sua retorica sull’Ucraina è cambiata in modo significativo dalla campagna elettorale al periodo successivo al 4 novembre. Gli esperti di politica americana sottolineano che nemmeno la sua prima Amministrazione può essere considerata un riferimento affidabile per delineare possibili scenari nei rapporti tra Stati Uniti e Russia sotto una sua eventuale rielezione. Non possiamo formulare previsioni certe sul futuro, né su quanto Trump voglia evitare di apparire debole agli occhi di Putin e della comunità internazionale, rischiando di ripetere immagini imbarazzanti come il caotico ritiro americano dall’Afghanistan. Tuttavia, alcuni episodi chiave del suo primo mandato offrono spunti di riflessione: l’imposizione di sanzioni sul progetto Nord Stream 2 (revocate in seguito dall’Amministrazione Biden nell’estate del 2021), la sospensione del trattato INF sui missili nucleari a raggio intermedio, dopo anni di violazioni da parte della Russia, e la revoca del veto – imposto in precedenza dall’Amministrazione Obama – sulla vendita di armi all’Ucraina. Passando al fronte russo, il Cremlino non può certo essere accusato di ambiguità nei suoi obiettivi di guerra contro l’Ucraina. Mosca ha ribadito più volte che, pur essendo aperta a un dialogo diretto con Trump, le sue finalità restano immutate rispetto all’inizio dell’invasione su larga scala nel 2022. Tra queste: ottenere il controllo politico sul governo di Kyiv (quello che loro chiamano la “denazificazione”), smilitarizzare l’Ucraina secondo i livelli delineati nel comunicato di Istanbul – che avrebbe lasciato il paese senza reali capacità difensive in caso di una nuova aggressione – e ottenere la rinuncia formale di Kyiv all’ingresso nella Nato. Inoltre, Mosca rifiuta categoricamente l’ipotesi di una missione internazionale di peacekeeping lungo la linea del fronte, il cui tracciato rimane incerto. Un’incertezza legata al fatto che la Costituzione della Federazione russa considera parte integrante del proprio territorio non solo i territori ucraini che attualmente sta occupando militarmente ma anche regioni che non è mai riuscita a conquistare. Ne è un esempio la regione di Donetsk, di cui circa il 45 per cento è ancora sotto il controllo di Kyiv, così come ampie porzioni delle regioni di Kherson e Zaporizhzhia, dove l’Ucraina mantiene il controllo su circa metà del territorio. Al momento, Mosca non ha alcun interesse a concordare un cessate il fuoco permanente in Ucraina, per diverse ragioni. La prima riguarda la complessità stessa di un possibile accordo. Per Kyiv, una tregua avrebbe senso solo se accompagnata da garanzie concrete per impedire che venga violata immediatamente e che il conflitto riprenda nel giro di poco tempo. Di conseguenza, qualsiasi intesa dovrebbe necessariamente includere un meccanismo di sicurezza che protegga l’Ucraina da future aggressioni. Secondo le indiscrezioni sui presunti piani di pace di Trump circolate sui media, una delle ipotesi prevederebbe il rinvio dell’adesione dell’Ucraina alla Nato per 20 anni, in cambio di un flusso costante di armamenti americani per rafforzare la difesa di Kyiv contro una possibile nuova offensiva russa. Un modello che ricalcherebbe, in parte, l’attuale accordo fra Stati Uniti e Israele. A questo si potrebbe aggiungere la presenza di peacekeeper europei lungo la linea del fronte, come ulteriore elemento di deterrenza. Tuttavia, se queste condizioni potrebbero risultare accettabili per l’Ucraina, difficilmente lo sarebbero per il Cremlino. Come già detto, l’obiettivo strategico di Mosca nel lanciare questa guerra resta immutato: ottenere il controllo politico su Kyiv, trasformandola in una sorta di “Bielorussia” sotto l’influenza russa. Anche nell’eventualità – per quanto remota – che Putin fosse interessato a un cessate il fuoco, si tratterebbe con ogni probabilità di una manovra tattica per guadagnare tempo, riorganizzare le forze e riprendere la guerra nei mesi o negli anni successivi. Tuttavia, Mosca è ben consapevole che il fattore tempo potrebbe giocare a favore anche dell’Ucraina. Un accordo che prevede sia il cessate il fuoco sia un sostegno militare continuativo a Kyiv consentirebbe all’Ucraina di rafforzarsi in vista di una futura invasione, ribaltando il vantaggio strategico a sfavore della Russia. Ed è proprio questa eventualità che il Cremlino intende scongiurare a tutti i costi. Il secondo motivo per cui Mosca non sarebbe interessata a un accordo di cessate il fuoco riguarda l’obiettivo minimo che il Cremlino si è prefissato in questa guerra, che rimarrebbe irrealizzato: la conquista totale del Donbas. Dopo tre anni di conflitto, la Russia non è riuscita a occupare completamente questa parte dell’Ucraina, dato che, come già sottolineato, il 45 per cento della regione di Donetsk è ancora sotto controllo ucraino. E’ improbabile che Putin abbia sacrificato quasi 800.000 soldati tra morti e feriti solo per ottenere città come Pokrovsk (che deve ancora essere conquistata) o le rovine di Bakhmut, Avdiivka e Vuhledar. Località che, ironicamente, prima della guerra erano sconosciute persino a gran parte della popolazione russa. Il terzo elemento che rende improbabile un interesse di Mosca per un cessate il fuoco permanente riguarda il futuro delle sanzioni e la stabilità economica della Russia. Sebbene l’efficacia delle misure restrittive occidentali sia oggetto di  dibattito, è innegabile che l’intero sistema finanziario, economico e sociale russo si regga ormai esclusivamente sull’economia di guerra. Putin è pienamente consapevole che, una volta cessate le ostilità, la rimozione delle sanzioni non sarà immediata né semplice. La reintegrazione dell’economia russa nei mercati globali, in particolare il ritorno del gas russo in Europa, sarebbe estremamente difficile, dato che l’occidente ha ormai ridotto la propria dipendenza energetica da Mosca. Questa situazione potrebbe generare conseguenze imprevedibili per la stabilità interna della Russia e, di riflesso, per il potere dello stesso Putin. Sebbene il paese abbia dimostrato una certa resilienza nel far fronte alle sanzioni, sostenere questo assetto economico nel lungo periodo sarà sempre più complesso. La guerra, ormai, non è solo un conflitto militare, ma rappresenta un pilastro del sistema economico e politico russo. Di fatto, è diventata il principale motore della crescita e la garanzia della tenuta del regime. In questo contesto, Putin potrebbe vedere nel prolungamento del conflitto l’unica strategia per evitare un collasso economico totale.

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