Ieri, durante un’intervista, Emmanuel Macron ha ribadito la propria determinazione nel sostegno all’Ucraina contro la Russia, criticando gli sbilanciamenti della prima bozza del piano americano. La volontà di resistere alle minacce russe detta la linea francese, con una visione del rafforzamento della difesa che include anche un rilancio della leva su base volontaria. Già la settimana scorsa, a margine dell’incontro con Volodymyr Zelensky, era stato firmato un pre-accordo per la vendita di 100 aerei Rafale e di 8 sistemi antimissilistici Samp-T di nuova generazione, che segnala come la Francia intenda solidificare il baluardo ucraino in funzione di deterrenza contro la Russia. Per Macron, lo scenario internazionale rimane un palcoscenico sul quale la sua legittimità non viene messa in discussione, a differenza della politica nazionale, assai ingarbugliata. L’emergenza dettata dalla necessità di gestire il piano americano riporta Macron al suo ruolo di sostenitore dell’Ucraina e motore dei “volenterosi”. Va rilevato che l’accordo con la Francia per la fornitura di materiale era arrivato dopo quello di ottobre, nel quale Zelensky aveva firmato una lettera di intenti con la Svezia per un totale di 150 aerei da caccia Gripen. Abbiamo quindi l’espressione di una scelta strategica da parte di Kyiv: quella di dotarsi di una flotta cospicua di almeno 250 velivoli prodotti in Europa, che indica la volontà di non affidarsi all’industria statunitense, anche per evitare un eccessivo condizionamento da parte di Washington. Ma vi sono poi ulteriori problematiche. Il costo globale di questo potenziale contratto per la fornitura di Rafale si aggira fra i 15 e i 20 miliardi di euro, un budget che difficilmente la Francia può reperire da sola, anche considerando le ristrettezze di bilancio. Inoltre, i primi Rafale potrebbero essere forniti soltanto fra tre anni, mentre ci vorrebbe circa un decennio per evadere l’intero ordine. Senza poi dimenticare la situazione attuale, che vede l’Ucraina chiedere agli alleati aiuti immediati per fronteggiare l’incombente offensiva russa, accanto allo sforzo diplomatico per smussare gli angoli della proposta americana cercando però di tenere Washington “dentro”. L’operazione industriale non può essere portata a termine senza un consenso a livello europeo e senza il ricorso a meccanismi comuni di finanziamento. D’altro canto, l’annuncio della potenziale fornitura dei Rafale illustra anche le difficoltà dell’industria aerospaziale europea. L’azienda francese Dassault, produttrice del Rafale, è al centro dell’attenzione per una potenziale rottura dell’accordo franco-tedesco-spagnolo relativo alla produzione del sistema di caccia del futuro FCAS. Il disaccordo fra la francese Dassault e la parte tedesca di Airbus potrebbe portare a una scissione del programma, nel quale verrebbe prodotto in comune soltanto un sistema digitale di integrazione dello spazio aereo di combattimento – una sorta di “super cloud” militare – mentre si separerebbero le strade per la produzione del velivolo. La Dassault rimane intransigente sul controllo della produzione, il che affonderebbe la possibilità di un velivolo di sesta generazione in comune, un programma franco-tedesco di grande significato politico. Ma non sembra concepibile che la Germania, il paese che investe maggiormente nella difesa in Europa, finanzi le produzioni di Dassault se questa esclude le aziende tedesche dal velivolo del futuro. Anche nel settore spaziale possiamo osservare una logica simile. L’ambizioso accordo “Bromo”, che pianifica un’alleanza fra Leonardo, Thales e Airbus per la produzione di satelliti, dipende molto dalla capacità di accedere ai mercati pubblici europei, mettendo insieme le competenze consolidate di Thales Alenia Space, Telespazio e Airbus Defence and Space. La Commissione europea potrebbe destinare fra i 40 e i 50 miliardi allo spazio nel budget 2028-2034. In Germania, il ministro della Difesa ha recentemente annunciato un budget di 35 miliardi per tecnologie spaziali militari da investire entro il 2035, mentre Berlino si accinge a portare il suo contributo a 5 miliardi nella prossima ministeriale Esa, una capacità di spesa davvero notevole. Tuttavia, in Germania l’azienda Ohb si presenta come “campione nazionale”, mentre il colosso della difesa Rheinmetall ha appena annunciato la creazione di una propria unità di produzione satellitare insieme alla finlandese Iceye, entrambi muovendosi secondo una logica di preferenza nazionale che potrebbe creare concorrenza per la ripartizione dei fondi tedeschi. La Francia vuole mantenere le sue eccellenze, che rappresentano anche asset strategici per l’Europa, promuovendo una visione di autonomia strategica ma ha risorse finanziarie limitate. Tutto ciò porta alla necessità di innalzare il livello della discussione strategica all’interno dell’Unione o addirittura fra i principali paesi industriali (Italia, Germania, Francia, Spagna) per limitare gli effetti di una concorrenza intraeuropea che potrebbe rivelarsi globalmente dannosa. Ma per realizzare i necessari compromessi fra politiche industriali e visione strategica, le strutture dell’Unione sembrano al momento inadeguate. Alcuni strumenti bilaterali, come il Trattato franco-tedesco, il Trattato del Quirinale italo-francese o il Piano d’Azione italo-tedesco, possono fungere da utili cinghie di trasmissione. Tuttavia, lo scenario di una cooperazione rafforzata al centro dell’Europa, fra un nucleo di paesi volontari e capaci, nell’ambito di un salto di integrazione sulla scia del rapporto Draghi, sembra oggi più che mai necessario per evitare che logiche nazionaliste producano effetti negativi sulla necessaria erogazione di una maggiore sicurezza, anche sotto il profilo tecnologico e industriale. Preservare un gioco delle parti può essere una buona mossa, dato il comportamento ieratico dell’Amministrazione Trump, ma diventa poi efficace solo se gli obiettivi europei sono saldamente comuni.
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