L’unità dei media americani contro le minacce di Trump

13/05/2025 04:53 Il Foglio

La grande domanda che incombe sui media statunitensi in questo momento è: cosa dovrebbero fare mentre si addensano le nubi della tempesta Trump? Il presidente ha espresso chiaramente la sua avversione per i media indipendenti tradizionali, che cercano di raccontarlo in modo equo, ma che lui accusa di continuo di essere faziosi nei suoi confronti. Ha già preso di mira l’agenzia di stampa Associated Press, l’emittente Abc News e la società madre della Cbs, Paramount, con condanne verbali, restrizioni ai giornalisti per quel che riguarda la partecipazione agli eventi della Casa Bianca o azioni legali – o una combinazione di queste azioni. L’Amministrazione Trump ha anche rivisitato il modo in cui le notizie dalla Casa Bianca vengono diffuse, privilegiando testate favorevoli e riservando alla Casa Bianca un controllo molto più stretto su ciò che il pubblico viene a sapere. Il dipartimento di Giustizia ha inoltre revocato di recente delle linee guida che rendevano più difficile convocare i giornalisti in tribunale riguardo a indagini sulle informazioni trapelate. E’ un copione già visto in Ungheria, Turchia, India, Russia e altrove. “Parliamo spesso delle minacce alla libertà di stampa all’estero – ed è giusto – ma non possiamo perdere di vista ciò che sta accadendo qui da noi”, ha detto Mike Balsamo, presidente del National Press Club di Washington, che difende la libertà dei media. Tra le preoccupazioni da lui sollevate durante una recente discussione figurano l’intimidazione legale e “i tentativi del governo – più o meno visibili – per controllare la narrazione sacrificando la verifica dei fatti”. Ha anche aggiunto: “Non si tratta di preoccupazioni astratte o lontane – sono cose che stanno accadendo ora e con sempre maggiore frequenza”.   Qui potete leggere la versione inglese di questo articolo   La giornata mondiale per la Libertà di stampa c’è stata all’inizio di maggio ed è passata, ma non esiste un dirigente responsabile del settore dell’informazione negli Stati Uniti che non stia pianificando come affrontare un’escalation della campagna trumpiana anti media. E non deve fare troppi sforzi per immaginarsela. L’Amministrazione Trump sta colpendo anche altre istituzioni che svolgono un ruolo di controllo essenziale in una democrazia vitale come la nostra  – giudici, studi legali e università – proponendo impeachment giudiziari, minacciando gli studi legali con l’esclusione dai contratti governativi, bloccando fondi federali per la ricerca accademica o chiedendo indagini fiscali. Quindi, man mano che la campagna contro i media si intensifica, come risponderanno alcune delle testate più importanti a livello globale? Si schiereranno pubblicamente e unite di fronte all’intimidazione per affermare la centralità della libertà di stampa? Oppure normalizzeranno gli attacchi dell’Amministrazione, cercheranno di proteggersi mentre i concorrenti soffrono, sperando che i riflettori non si puntino su di loro?  Esiste un esempio che dovrebbe darci un po’ di ottimismo sulla possibilità che la stampa sia unita ed efficace di fronte all’intimidazione del governo. Quando il mio ex collega Evan Gershkovich fu arrestato ingiustamente dalle autorità russe nel marzo 2023 e accusato falsamente di spionaggio, le priorità immediate per il suo datore di lavoro, il Wall Street Journal, furono due: convincere il mondo che Gershkovich non era una spia e fare pressione sull’Amministrazione americana per concludere un accordo che riportasse Evan a casa. In qualità di responsabile della sede di Washington del Wsj, mi fu affidato il compito di guidare quell’attività, che divenne poi un lavoro a tempo pieno. Il nostro messaggio principale era: le accuse montate ad arte dalla Russia contro Gershkovich sono un affronto alla libertà di stampa. E, anche se tutto ciò avveniva a migliaia di chilometri di distanza, era una questione che riguardava anche l’America. Ci siamo affidati ai nostri colleghi della stampa americana e internazionale per diffondere questo messaggio e abbiamo chiesto loro di schierarsi con noi nella denuncia di quest’ingiustizia. La risposta è stata  unanime, decisa ed entusiasta. In un gesto di unità che a sua volta fece notizia, il Wall Street Journal, il New York Times e il Washington Post – i tre quotidiani più autorevoli per tiratura – pubblicarono insieme diversi annunci pubblicitari per condannare il sequestro di Gershkovich e chiedere la sua liberazione. Le principali testate americane ritirarono i loro corrispondenti da Mosca. Le emittenti Nbc, Msnbc, Cbs, Abc, Bloomberg, Scripps, Pbs, Fox News, Npr, Cnn, Voice of America, NewsNation e molte altre aprirono i loro studi per dare visibilità alla vicenda. Due maratone di lettura di 24 ore, in cui le persone leggevano il lavoro di Gershkovich a turni di 15 minuti, videro la partecipazione di una vera e propria “parata di stelle” del giornalismo e dei vertici dell’industria. Fu una campagna che l’intero settore dell’informazione poté sostenere con orgoglio, difendendo ad alta voce uno dei pilastri su cui si regge tutto il mestiere. E funzionò: Gershkovich e altre 15 persone furono liberate il 1° agosto dello scorso anno e funzionari del governo americano hanno citato quella campagna di pressione come fattore chiave per concludere un accordo con il Cremlino. Ma quanto può estendersi quell’ottimismo? Il caso di Gershkovich era molto chiaro: un regime totalitario che mette a tacere un giovane e coraggioso cronista che ha dedicato la sua carriera a raccontare la vita in un paese lontano. Ed è giusto dire che per le altre organizzazioni c’era ben poco rischio: la Russia difficilmente si sarebbe vendicata contro chi ci sosteneva. Quando però gli attacchi sono meno clamorosi e più vicini a casa, per le testate si aprono inevitabilmente questioni più complesse, che rendono meno probabile una risposta pubblica e coordinata in difesa della libertà di stampa. Per cominciare, non è affatto detto che l’Amministrazione Trump si lasci influenzare da un’azione collettiva. Potrebbe anzi accoglierla con favore, usandola come pretesto per bandire ancora più giornalisti sgraditi, sostituendoli con altri più accondiscendenti. A che servirebbe, in tal caso, al pubblico o alla causa della libertà di stampa? E’ anche probabile che i grandi conglomerati mediatici temano ritorsioni governative in altri settori del loro business se si espongono troppo esplicitamente contro gli attacchi alla libertà di stampa. Paramount, per esempio, è stata criticata apertamente da alcuni giornalisti della sua stessa rete Cbs, che denunciano un’ingerenza nella loro indipendenza editoriale. Per loro, non è un caso che il destino di una grande fusione che Paramount sta tentando di realizzare dipenda in larga misura dal governo statunitense. Molti dipendenti del Washington Post hanno espresso lamentele simili: ritengono che il proprietario del giornale, Jeff Bezos, sembri più interessato a proteggere gli affari governativi di Amazon che l’indipendenza della testata, che possiede a titolo personale. Vale comunque la pena sottolineare che entrambe le redazioni hanno raccontato Trump in modo incisivo e corretto durante le varie controversie. Altri potrebbero ritenere che nessun singolo attacco alla stampa americana giustifichi una risposta su larga scala – qualunque forma essa possa assumere. Oppure potrebbero sostenere che una condanna energica degli attacchi alla libertà di stampa rischierebbe solo di alienarsi ulteriormente la metà degli elettori americani che ha votato per Trump e che già considera i media non schierati come inaffidabili. Tutte queste preoccupazioni sono legittime, ma messe insieme hanno finora prodotto una risposta deludente, inadeguata al momento – e che contribuiscono al peggioramento della libertà di stampa che molti ritengono ormai inevitabile. Il pericolo più grande per i media americani potrebbe essere che questi attacchi individuali vengano normalizzati, giustificati o archiviati come episodi tutto sommato tollerabili. Un paragone utile è quello con la Cina, che è riuscita ad appropriarsi di vaste porzioni del Mar cinese meridionale senza un’opposizione forte o coordinata da parte dei paesi confinanti. Lo ha fatto con una strategia di piccoli passi, che i critici chiamano “tecnica del salame”: nessuna singola mossa è abbastanza grave da suscitare una reazione duratura. Ma sommate nel tempo, queste mosse cambiano radicalmente il paesaggio. Se i media statunitensi non trovano una voce collettiva per opporsi alle singole sfide alla libertà di stampa interna, quanto dovrà peggiorare la situazione prima che agiscano? E, a quel punto, sarà troppo tardi?   Paul Beckett è un ex senior editor del Wall Street Journal e ha lavorato a Washington, Hong Kong, Nuova Delhi, Londra e New York.

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