Tra assassinii mirati e sparatorie nelle scuole, si parla di “spirale feroce”, di “scivolata verso l’abisso” e di “nodo gordiano della violenza politica”. L’omicidio del 31enne attivista Maga Charlie Kirk ripropone la domanda: come si ferma tutta questa violenza? “Le parole non sono la violenza. La violenza è violenza”, ha scritto sull’Atlantic George Packer, in merito all’attacco trumpiano alla “sinistra radicale” responsabile di aver alzato il clima d’odio, perché a lungo ha “paragonato Charlie Kirk a un nazista o a uno stragista”. Era successa la stessa cosa da parte del vicepresidente J. D. Vance dopo il tentato assassinio di Trump in Pennsylvania, quando Vance aveva incolpato la sinistra aggressiva. E ieri varie voci dell’alt-right si sono alzate per chiedere il pugno duro sui “radicali”. “Nessuno”, dice Pecker, “dovrebbe usare l’uccisione di un uomo noto per la sua difesa della libertà di parola per zittire altri”, e questo sarebbe il primo passo per evitare un effetto a catena di ulteriore violenza. Oltre all’effetto emulazione, per evitare altri gesti del genere bisognerebbe capire i problemi da cui partono. Come ha sottolineato Matthew Continetti su Free Press, questo assassinio non è avvenuto nel vuoto. Se unisci “individualismo radicale con una cultura senza moderazione o contenimento, hai l’equivalente sociale di una bomba Molotov”. Secondo il giornalista, l’America è divisa in due, e la colpa è di “istituzioni deboli, informazioni traviate, sfiducia rampante, ostilità politica e l’apparente incapacità di controllare la criminalità e le persone pericolose con malattie mentali”. Continetti si augura che la morte di Kirk sia un punto di svolta, in cui collettivamente si dica “basta!”, tornando ad avere più tolleranza dell’altra parte politica, ma anche più fiducia nella costituzione, un sano patriottismo e una “resa dei conti sui danni antisociali degli smartphone e dei social”. I social entrano nel tema anche per via della normalizzazione della violenza. Perché il video dell’omicidio di Kirk è stato postato da tutti, come se fosse un reel di TikTok. E anche giornali e riviste e privati cittadini non si sono trattenuti dal far vedere il corpo del giovane padre che si piega dopo esser stato colpito da uno o più proiettili. Il critico culturale Thomas Chatterton Williams ha detto che non si può stare bene, individualmente o come società, se si è esposti costantemente a filmati di gente ammazzata. “Guardare gli orribili video di Iryna Zarutska e di Charlie Kirk non fa bene alla salute”, ha scritto su X, citando la morte della ragazza ucraina uccisa in metropolitana da un malato mentale. Questi video “ci stanno deformando”, ha detto. Politico ha parlato con il senatore democratico Mark Kelly, che aveva visto sua moglie, l’ex deputata Gabby Giffords, colpita da vari proiettili dopo un tentato omicidio nel 2011. “Possiamo tornare indietro da tutto questo”, ha detto Kelly, “ma penso ci vogliano molte persone per fare una rivalutazione della situazione”. Sulla National Review Jim Geraghty ha citato uno studio recente che aiuta a spiegare quel che sta accadendo. Il Network Contagion Research Institute ha scoperto che il numero di persone disposte a giustificare e addirittura celebrare un omicidio fatto in nome di idee politiche è sempre più alto. Un ex tabù sempre più accettabile, come si è visto con la celebrazione del killer Luigi Mangione. E’ vero che i democratici hanno criticato in blocco l’omicidio di Kirk, ma, come dice Geraghy, se tutti i giorni uno critica con fervore l’altra parte perché sta “distruggendo la democrazia”, come fai poi quando qualcuno decide di immolarsi o uccidere credendo di difenderla? Ex presidenti come Barack Obama e George W. Bush hanno condannato l’omicidio. Bush ha parlato di “eliminare dalla pubblica piazza violenza e vetriolo”, lui che a lungo è stato vittima di attacchi complottisti. “Si potrà fare qualcosa? O siamo già troppo oltre?”, si è chiesto Andrew Egger sul Bulwark. “Forse siamo già destinati a cadere in un spirale di violenza incrementale, e di recriminazioni e contro-recriminazione, con entrambe le parti convinte fino al letto di morte che l’altra parte sia da incolpare”. Dai tardi anni ’80 si credeva ormai di essersi lasciati alle spalle le scene storiche in cui i due fratelli Kennedy o Martin Luther King Jr. venivano uccisi, così come dopo il crollo dell’Urss si credeva che la guerra fosse solo un ricordo. Ora quel periodo sembra sempre di più una parentesi felice. Nei primi sei mesi dell’anno negli Stati Uniti ci sono stati circa 150 attacchi violenti di natura politica, quasi il doppio dell’anno scorso. Sempre su Bulwark William Kristol ha voluto usare le parole di Bobby Kennedy pronunciate dopo l’omicidio di Martin Luther King: “Possiamo migliorare in questo paese, dobbiamo domare la selvaggia ferocia umana e rendere mite la vita di questo mondo”.
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