Il nostro rumore per Cecilia Sala. Le scelte che abbiamo fatto per raccontare la sua detenzione

11/01/2025 04:42 Il Foglio

Alle sei del pomeriggio del 19 dicembre mi ha chiamato Claudio Cerasa, il mio direttore, mi ha chiesto: hai sentito Cecilia? Sì, questa mattina, ho risposto, torna domani. Sono un po’ di ore che non si hanno sue notizie, ha detto Claudio, è stato dato l’allarme. Ho guardato gli ultimi messaggi scambiati con Cecilia: l’ultimo era alle 10.01, a Teheran le 12.31: nei giorni successivi avrei scoperto che questo è più o meno l’orario in cui Cecilia Sala è stata arrestata illegalmente dalle autorità iraniane, nella sua stanza d’albergo a Teheran.    Ci è stato chiesto il riserbo assoluto, dopo che il 20 dicembre Cecilia ha chiamato per la prima volta a casa per dire che era stata arrestata (ho provato un brevissimo e inopinato sollievo alla notizia dell’arresto: quando alla mattina all’alba avevo saputo che Cecilia non era arrivata al check-in del suo volo di ritorno in Italia, ho pensato per ore a scenari terrificanti. Almeno adesso sappiamo dov’è). E’ iniziato così il nostro silenzio, l’angoscia mescolata alle feste di Natale, i regali, gli auguri, le cortesie che non ho più fatto, le informazioni scarne su Cecilia.  Forse può chiamare a casa per Natale, forse l’ambasciatrice Paola Amadei riesce a vederla per Natale. E’ passato Natale senza altre informazioni sulle condizioni di Cecilia, che ha poi chiamato il 26 dicembre fornendo i primi, pochi e spaventosi dettagli del suo isolamento. Il 27 dicembre è stata fissata la visita dell’ambasciatrice, e questo è stato anche il giorno in cui il silenzio si è interrotto, l’arresto illegale è diventato pubblico, è iniziato il rumore.  Dal 28 dicembre fino a quando ho mandato il messaggio “she’s free”, l’8 gennaio, ho parlato quotidianamente con persone del Washington Post e del Wall Street Journal, due giornali americani che hanno gestito la detenzione di loro giornalisti, di Jason Rezaian, che è stato a Evin per quasi due anni dal 2014 al 2016 e che ora guida la redazione Iniziative per la libertà di stampa sempre al Washington Post, e di Evan Gershkovich, arrestato in Russia nel marzo del 2023, liberato l’estate scorsa, sedici mesi nella prigione di Lefortovo.  Quando ho iniziato ad attivare i contatti, la risposta che ho ricevuto è stata: grazie che hai chiamato, altrimenti ti avrei cercato io, perché per gestire questo genere di crisi servono strategia e fiato – il fiato mi è stato citato anche da ex detenuti, parenti di ex detenuti, giornalisti: è una maratona che non sai quanto durerà, bada a non rimanere mai senza fiato.     Paul Beckett, capo dell’ufficio di Washington del Wall Street Journal che si è occupato della copertura del giornale della detenzione di Gershkovich, è stato il primo a parlarmi del “muro” da costruire nella redazione del Foglio tra chi si occupa della campagna per la liberazione di Cecilia e chi si occupa delle notizie sulle trattative per la sua liberazione. L’obiettivo è comune – “Cecilia first”, il criterio per prendere qualsiasi decisione su cosa pubblicare e cosa no – ma si tratta di due lavori diversi, perché gli interlocutori sono diversi, le informazioni che devi maneggiare sono diverse, c’è “l’advocacy” e c’è “il news reporting”, devono essere coordinati e allineati, ma non si devono né intralciare né condizionare. Ha fatto un esempio: Beckett, che si è occupato della campagna “Free Gershkovich” dentro e fuori il Wall Street Journal, aveva informazioni che non poteva condividere con i suoi redattori, gli stessi che fino al giorno prima lavoravano con lui nell’ufficio politico di Washington, cioè con il governo americano. Un’altra volta era stato il governo a pensare che ci fossero delle indiscrezioni interne che considerava pericolose, perché alcune notizie che Beckett sapeva erano finite in un articolo di notizie del Wall Street Journal: il governo se n’era lamentato, e i rapporti di fiducia sono delicati e decisivi, se si insinua il dubbio che qualcuno non sta rispettando le regole, diventa tutto più complicato e soprattutto ci possono essere conseguenze su chi intanto sta in una galera di un regime straniero. Ma Beckett non aveva valicato il muro, i giornalisti (bravi) avevano trovato quelle informazioni facendo il loro lavoro.  Confesso che ho riso: la nostra redazione è piccola, dovrei spaccare a metà la testa dei redattori, a partire dalla mia. Beckett mi ha detto che avremmo adattato la strategia alla realtà del Foglio, ma ha aggiunto: è meglio che almeno tu decida da che parte del muro stare. Ho scelto la campagna per la liberazione di Cecilia.  Beckett ha spiegato sulla Columbia Journalism Review questa strategia dopo che Gershkovich è stato liberato in un epocale scambio di prigionieri con la Russia: il Wall Street Journal ha creato team appositi, c’era persino una giornalista che badava alla tenuta del muro, per non parlare del coinvolgimento dell’ufficio marketing, degli avvocati, del team della comunicazione. (In un’altra conversazione con un giornalista del Wall Street Journal, ho riso di nuovo: mi ha chiesto se potevo coinvolgere anche io tutte quelle persone, a ogni domanda specifica rispondevo di no, alla fine  ha detto: “Ti cerco qualcuno io e te lo mando”). Beckett scrive: “E’ stato detto molto sugli incentivi che gli scambi dei prigionieri possono creare, in particolare quelli che scambiano americani innocenti con russi colpevoli di crimini gravi all’estero, così come si è detto molto sul fatto che il pagamento di un riscatto possa portare a ulteriori sequestri. Dal punto di vista del Wall Street Journal, però, questo era un dibattito teorico buono per un altro momento: un nostro giornalista, che era accreditato come corrispondente straniero in Russia, era già stato arrestato. Dovevamo fare tutto il possibile per farlo uscire, così come aiutarlo in prigione e sostenere la sua famiglia. Non avremmo gestito nessun negoziato con la Russia, ma avremmo fornito sostegno, e quando necessario fatto pressione su quelli che invece il negoziato lo avrebbero fatto”. Come mi ha detto un ex detenuto di Evin, un americano-iraniano che ha passato un tempo sterminato lì: tu non puoi liberare Cecilia, sarà il tuo governo a farlo, ma  puoi fare in modo che il governo non perda tempo, che non si nasconda dietro a silenzi stampa che servono soltanto ad alleggerire la pressione, che non faccia scivolare la priorità di Cecilia in basso, fino a dimenticarsene. Non avere paura di fare rumore. Buona parte della strategia adottata dal Wall Street Journal è stata ideata dal Washington Post quando, nel 2014, dovette gestire l’arresto, la detenzione, il processo, la condanna per spionaggio e infine la liberazione di Jason Rezaian. Sul sito, c’è un minidocumentario di 18 minuti in cui si raccontano il muro e le persone coinvolte, in alto c’è il conteggio dei giorni a Evin, 544, che è anche il titolo di un podcast di Rezaian, in cui spiega un’altra parte della strategia, che è appunto quella di fare rumore: “Be loud” (Jason mi ha raccontato la sua detenzione, mi ha spiegato che cosa accadeva nell’isolamento e durante gli interrogatori, mi ha fornito tutti i dettagli possibili per raccontare cosa stava accadendo a Cecilia, le pressioni, la paura, le bugie che si subiscono in quelle celle; mi ha aiutato ad avere sempre chiara la strategia e ad adattarla giorno per giorno a seconda delle dichiarazioni del governo e della famiglia; ha anche governato la mia angoscia, un caricatore vivente di energia emotiva: grazie). Beckett l’ha formalizzata: “Viste le nuove dinamiche nella presa degli ostaggi, rimaneva la domanda: quanto il Wall Street Journal avrebbe dovuto essere aggressivo nel tenere alta la priorità di Gershkovich e spingere il governo a muoversi? Che cosa avrebbe accelerato il suo ritorno, la discrezione e la cautela o urlare l’ingiustizia che il nostro giornalista stava subendo dal momento dell’arresto? Una telefonata da un funzionario del governo che conosce questo genere di cose ci ha fornito la risposta: ‘Ci sono momenti in cui stare zitti e ci sono momenti in cui fare rumore, this is a time to be loud’. ‘Be loud’ è stato adottato come un mantra, ci sono state occasioni in cui abbiamo abbassato il volume perché le trattative erano in un punto tanto sensibile che troppa pubblicità avrebbe potuto essere controproducente. Altrimenti: volume alto”.  Nella sua cella a Evin, mi hanno detto, Cecilia non ha accesso al volume. L’alternanza tra silenzio e rumore non è una scelta per lei, nulla di quel che le accade lì è una sua scelta: la volontà del prigioniero è annullata, al suo posto ci sono le informazioni, spesso deliberatamente false, fornite dagli unici interlocutori possibili, cioè i carcerieri. Che cominciano con il silenzio: là fuori nessuno sta parlando di te, nessuno si sta prendendo cura di te, nessuno si sta occupando di te. E’ un periodo che può durare il tempo che decidono i carcerieri – Cecilia non ha avuto contezza di quel che stava accadendo fuori finché non è stata liberata – perché dipende dai contatti con l’esterno e dal metodo di pressione scelto: la paura di essere dimenticati in una cella lì dentro. Poi arriva il rumore, che parte dalle intimidazioni: le accuse, il fatto che esistano delle prove a carico del detenuto che ne giustificano la detenzione, l’insistenza nel far firmare una confessione, le continue domande, magari sempre le stesse, e l’irritazione per le risposte sempre uguali. Ci sono anche le bugie su quel che avviene fuori di lì, il rumore esterno, degli altri, che viene trasformato in un’altra minaccia: parlano tutti troppo, e questo è un problema per te che sei dentro. Nei racconti degli ex detenuti queste sono le minacce che più confondono – è meglio che si parli di me o che si taccia? – e che deformano l’alternanza tra silenzio e rumore. Rezaian così come molti altri ex detenuti che nel frattempo sono diventati attivisti e consulenti per le campagne di liberazione dei tantissimi che sono rinchiusi a Evin illegalmente, mi hanno detto che mai hanno sentito qualcuno lamentarsi del rumore fatto fuori. Nessuno, uscito di lì, ha detto: dovevi stare zitto, mi hai reso la vita impossibile, sono stato punito a causa delle tue campagne. Il rumore è pressione: non avere paura, fanne tanto. Quando è arrivata la richiesta di silenzio stampa da parte della famiglia di Cecilia, il Washington Post stava organizzando una pagina di pubblicità per la liberazione da pubblicare dopo qualche giorno. Avevamo già scelto la foto e il testo, era coinvolto anche il National Press Club di Washington che avrebbe fatto da tramite per disseminare la campagna su altri media: ho scritto subito dicendo del silenzio stampa e chiedendo di posticiparla. Certo, mi hanno detto, dicci tu quando rimetterla in lavorazione. E come faccio a saperlo? La risposta è sempre la stessa: quando ti accorgi che il silenzio è una scusa per levare urgenza alla liberazione di Cecilia.  Era il 3 gennaio ed era pomeriggio, il Foglio era  disegnato, gli articoli erano commissionati, lavorati, alcuni mezzi scritti: ce n’erano parecchi. Li abbiamo rivalutati uno per uno alla luce del silenzio stampa (richiesto sulle trattative), ne abbiamo tolti alcuni e trasformati altri, non eravamo tutti d’accordo, abbiamo discusso, deciso, cambiato idea, ridiscusso fino all’ultimo. Gli altri giornali cosa fanno? La risposta non ci importava più di tanto: noi siamo il giornale di Cecilia, abbiamo un’altra responsabilità, più grande, anzi: assoluta. A un certo punto ho pensato che qualche colonna bianca sul Foglio non fosse sbagliata: il silenzio di Cecilia, che non poteva scrivere, e il nostro, in quel vuoto, potevano combaciare.   Il giorno successivo un “consigliere” americano mi ha scritto: ho visto che il silenzio è stato variamente interpretato dai media italiani. Ho apprezzato la sobrietà del commento: alla lettura dei giornali mi erano venute in mente ben altre espressioni. Il 5 gennaio, ho detto al Washington Post che si poteva andare avanti con la pubblicità. Qualche giorno prima della liberazione di Cecilia, ho confessato a Beckett che mi sembrava di aver già finito il fiato. Mi ha raccontato un po’ di iniziative che aveva organizzato lui,  quella degli hamburger per esempio: Gershkovich ama cucinare, così il Wall Street Journal ha lanciato un pomeriggio ai fornelli per preparare “l’hamburger di Evan”, una sua ricetta con ingredienti speciali, assieme a giornalisti di altre testate, con la scritta dietro: il giornalismo non è reato (sembra che Gershkovich, ormai libero, abbia riso molto di quel “suo” hamburger: lo aveva cucinato forse un paio di volte, per caso). I fornelli mi sono sembrati un po’ ambiziosi, però un aperitivo si può fare, a base di Campari, il drink degli incontri tra me e Cecilia.  Ho ritrovato il fiato, ho chiesto informazioni sul sistema di posta a Evin per iniziare a inviare lettere a Cecilia, le tante che abbiamo già ricevuto per lei e quelle ancora da scrivere: nella sezione del carcere iraniano in cui è stata detenuta lei – forse la 2A, che è diversa da quella “pubblica” dove sono rinchiuse le decine di donne che ogni giorno mandano messaggi all’esterno sulle condizioni tremende e ingiuste in cui sono costrette a vivere – con tutta probabilità non le sarebbero mai arrivate, ma sarebbe stato un modo per parlare della straordinaria solidarietà per lei: le leggerà al suo rientro, mi hanno detto, perché bisogna sì costruire il muro, fare rumore e mantenere il fiato, ma anche coltivare la certezza che tornerà. Le risposte di questa nostra rete di sostegno e consigli al messaggio “she’s free” dell’8 gennaio sono la sintesi di quel che il Foglio ha fatto durante i 21 giorni della detenzione di Cecilia. Gliele ho raccontate, assieme agli incoraggiamenti, alle domande impossibili e ai piccoli momenti comici che inevitabilmente ci sono quando provi a spiegare agli americani come funzionano i media italiani, il silenzio, il rumore, il coordinamento, la fretta nel dare mezze notizie, lo sforzo di non darne nessuna pur avendola, l’uso dei virgolettati, la nostra responsabilità: abbiamo riso, sedute allo stesso tavolo.

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