Gli ucraini colpiscono il ponte di Kerch. Ora Putin ha bisogno di una vittoria qualsiasi

04/06/2025 04:00 Il Foglio

L’attacco ucraino agli aerei che bombardano il loro paese in aeroporti che sembrava impossibile raggiungere e il sabotaggio al sorvegliatissimo ponte di Kerch, il memorandum russo ai negoziati aperti per iniziativa di Trump, il relativo disimpegno americano e le manovre cinesi su Taiwan, ma anche verso la Russia, e l’ancora timido ma reale risveglio dei maggiori paesi europei, e soprattutto della Germania, confermano l’importanza di una guerra che sta ridefinendo equilibri e schieramenti mondiali, almeno per quanto riguarda i rapporti tra quelli che sono ancora i maggiori centri di potere del pianeta, cui però altri se ne aggiungeranno presto in questo periodo di veloci cambiamenti. In tre anni il conflitto sembra aver fatto più di un milione di morti e feriti, forse 6-700mila russi e 350-400 mila ucraini, ma non si hanno dati precisi. Dopo aver subìto due gravi sconfitte nel 2022 (quando fallì la sua invasione) e nel 2023 (quando crollò la Wagner, uno degli strumenti principali della sua politica), Vladimir Putin è riuscito a riconsolidare il suo potere e a riprendere l’iniziativa, conquistando però solo 487 chilometri quadrati nel 2023, poco più di 4.000 (inclusi i territori russi del Kursk) nel 2024 e quasi altri 4.000 dall’inizio 2025.  Sono molti se comparati agli anni precedenti, ma non sono tanti se commisurati alle difficoltà create agli ucraini dai mutamenti della politica americana. E’ però possibile che si sia alla vigilia di una nuova offensiva russa, anche perché Putin ha assoluto bisogno di una vittoria, se possibile sostanziale ma anche solo di immagine. Anche i più estremisti tra i nazionalisti russi sanno infatti bene quanto sia lungo l’elenco delle difficoltà e delle sconfitte che una serie di politiche mal concepite e mal gestite hanno creato a Mosca.  Tra le prime si contano quelle causate dalla trasformazione di un’economia già debole in un’economia di guerra che, come tutte le economie di guerra (è in fondo ragionando sulle dinamiche economiche della Prima guerra mondiale che Keynes elaborò le sue politiche), dopo un primo boom dovuto all’espansione della spesa pubblica a fini militari  già causa crisi e inflazione. Certo la Russia ha un salvagente costituito dalle riserve accumulate con l’esportazione di materie prime, un’esportazione che continua malgrado sanzioni evidentemente molto relative. Nei tre anni di guerra la Russia ha esportato energia per quasi 850 miliardi di euro (anche grazie al ruolo crescente di una flotta “fantasma” di centinaia di navi che tutti conoscono) e nel solo ultimo anno del conflitto la stessa Unione europea, che si definisce ed è un avversario delle politiche aggressive di Mosca, ha importato dalla Russia energia per quasi 22 miliardi, più dei nemmeno 19 spesi per sostenere finanziariamente l’Ucraina. Non sarebbe quindi difficile aumentare la presa di sanzioni che mordono molto meno di quel che potrebbero, anche solo attraverso più incisive politiche europee.   Nell’ultimo anno l’Ue ha importato dalla Russia energia per quasi 22 miliardi, più dei 19 scarsi spesi per l’Ucraina                Mosca è protetta anche dal suo arsenale nucleare (accresciuto e sostenuto negli anni Novanta da aiuti statunitensi e europei, un fatto, o meglio un errore, che è opportuno ricordare) oltreché e soprattutto dal sostegno di nuovi alleati, prima tra tutti la Cina, che ha giocato un ruolo chiave nel permettere a Putin di uscire dalla crisi del 2023. La sua Russia, e il suo potere, hanno quindi tre solide basi (soldi, atomiche e Cina), ma i danni fatti da una decisione sbagliata sono evidenti: alle tantissime vite russe perse per inseguire quella che si credeva una facile vittoria e alle crepe vistose nell’economia del paese si aggiungono il rischieramento di paesi scandinavi un tempo neutrali, il riarmo dei principali stati europei, il risveglio di una Germania che era stata, con socialdemocratici e democristiani, un partner sicuro e affidabile, il sospetto e la paura della Russia che agitano le élite di tanti paesi europei e centro-asiatici, e l’odio acceso nei cuori di milioni di ucraini che ancora nel 2022, malgrado gli avvertimenti di Washington, ritenevano impossibile un conflitto coi russi. Anche Putin sa di aver fatto un disastro, come lasciano intuire i suoi ripetuti sfoghi contro leader europei colpevoli di non aver capito – perché idioti – quale fosse il loro vero interesse, precipitando se stessi (ma evidentemente anche Putin e la sua Russia) in una situazione che nessuna persona intelligente nel senso putiniano del termine – cioè attenta a potere, vantaggi e privilegi e non a stupidaggini come valori e idee, che invece per una volta hanno sorprendentemente contato – poteva desiderare.   Anche Putin sa di aver fatto un disastro, come lasciano intuire i suoi ripetuti sfoghi contro i leader europei             Da qui deriva il suo impellente bisogno di una vittoria qualsiasi, che rende la situazione tanto pericolosa e molto problematica la continuazione dei negoziati. Il memorandum russo lo mostra con chiarezza. Anche lasciando da parte la prima sezione, dedicata alle condizioni di una pace vittoriosa e che consiste quindi nella ripetizione di desideri e obiettivi già noti, pure la seconda sezione, quella dedicata alla possibilità di un cessate il fuoco, e quindi implicitamente di un lungo armistizio, che continua a essere la via d’uscita più probabile, si basa su due opzioni che, così stando le cose, Kyiv non può che rifiutare: il ritiro dalle parti delle quattro regioni formalmente annesse dalla Russia nel 2022 ma ancora sotto il controllo ucraino per circa il 30 per cento del loro territorio oppure, e di fatto ancora peggio, la smilitarizzazione completa di un’Ucraina che sarebbe così alla mercé di Mosca.   È difficile immaginare una via d’uscita che non tenga conto dell’influenza e degli interessi di Pechino                            Putin ha quindi bisogno di una vittoria che renda possibile almeno avvicinarsi anche a una sola di queste due condizioni per motivi interni (cioè per salvare un’immagine compromessa malgrado l’apparente silenzio che regna nel paese) e forse e ancor più per motivi internazionali. Solo una vittoria gli permetterebbe infatti di sganciarsi da una dipendenza (che è cosa molto diversa da una alleanza, ed è il risultato naturale di una richiesta di aiuto rivolta nel momento del bisogno da un piccolo uomo a un uomo molto più grande e potente di lui) che di fatto fa oggi della Russia, malgrado la pomposa magniloquenza dei suoi Lavrov e Medvedev, un attore politico non completamente autonomo.  Arriviamo così a Pechino, senza la quale e senza tener conto dei cui interessi è difficile immaginare una via d’uscita, anche e proprio per la sua influenza su Mosca. E’ evidente che la Cina ha grande interesse a acquistare il maggior controllo possibile sulla Russia e le sue risorse, un interesse che sopravanza e di molto quello pure notevole a buoni rapporti economici e politici coi paesi europei. La Cina ha però due altri interessi, forse addirittura maggiori. Il primo è quello di risolvere una volta per tutte la questione di Taiwan (che la vede tra l’altro, al contrario della Russia, formalmente dalla parte del diritto). In questa prospettiva, la guerra russo-ucraina rappresenta una finestra di opportunità che un eventuale armistizio, per non parlare di pace, chiuderebbe. E’ quindi lecito immaginare che il 9 maggio a Mosca Xi abbia fatto pesare il suo sostegno a favore della continuazione di combattimenti che gli rendono più facile pensare operativamente alla conquista di Taiwan. La Cina potrebbe cioè usare il conflitto russo-ucraino per ottenere sul campo il riconoscimento formale del suo ruolo di altra grande superpotenza mondiale che gli Stati Uniti di Obama, Biden e Trump gli hanno testardamente negato. In altre parole, forse si uscirà dalla guerra in Europa solo attraverso l’accettazione del nuovo status cinese. L’Ucraina vive giorni difficili, ma può essere fiera di quanto ha fatto finora. Credo che qualunque valutazione realistica della situazione non potrà alla fine che concordare sul fatto che se riuscirà a reggere al prossimo assalto russo e a difendere con successo l’indipendenza da un paese tanto più grande, forte e ricco dell’80 e più per cento del suo territorio, Kharviv e Odesa incluse, malgrado il terremoto a Washington e buone intenzioni europee basate però sua una debolezza militare sostanziale, potrà e fondatamente rivendicare la vittoria nella sua guerra di indipendenza. Persino una situazione “finlandese” (il compromesso accettato da Stalin dopo il 1945 con un paese già parte dell’impero ma che aveva resistito eroicamente all’invasione nel 1939-940 pur finendo sconfitto), che è allo stato molto meno di quello in cui Kyiv possa lecitamente sperare, sarebbe una vittoria rispetto al “neocolonialismo” incarnato da Yanukovich nel 2013 e al trionfo sognato da Putin nel 2022. La resistenza avrebbe comunque pagato. Il ruolo di Trump e degli Stati Uniti è di più difficile definizione. Certo, il sostegno di Biden (peraltro mai completo, e comprensibilmente visto l’arsenale atomico russo) è stato decisivo, così come è stato decisivo il ruolo di Trump nell’apertura delle trattative. E non si può escludere che la delusione per Putin e la scoperta della solidità della presa di Pechino portino Trump a rivedere a favore di Kyiv le sue politiche e a imboccare, grazie anche alla riemersione della fazione anti russa e filoucraina del Partito repubblicano (una fazione tacitata nei mesi di luna di miele della nuova presidenza, mesi che però già volgono al termine), una politica simile a quella di Nixon. Andato al potere nel 1970 promettendo la pace, questi finì per escalate la guerra contro un Vietnam che rifiutava le sue offerte nella speranza di raggiungere così l’agognata de-escalation. L’accordo sulle fantomatiche terre rare ucraine potrebbe in questo caso servire a giustificare la svolta mostrando che l’Amministrazione Trump sa comunque difendere gli interessi statunitensi. Ma l’inconsistenza e l’imprevedibilità di Trump sono tali da rendere difficile ogni analisi, e resta forte l’impressione che, malgrado una roboante retorica, il Maga sia in realtà la copertura all’accettazione di fatto di un ridimensionamento del ruolo degli Stati Uniti nel mondo, e che Trump e i suoi siano molto più interessati alla loro “rivoluzione americana” che non alla politica estera, conflitto russo-ucraino incluso (da questo punto di vista essi ricordano così Obama, di cui rappresenterebbero in un certo senso un’immagine capovolta vista la distanza tra la loro “rivoluzione” e quella da lui perseguita).   Il Maga è la copertura all’accettazione di fatto di un ridimensionamento del ruolo degli Stati Uniti nel mondo                   Questa nuova situazione costringe i paesi europei e l’Unione europea a cercare un nuovo ruolo e una nuova identità, una ricerca non facile e molto conflittuale, come hanno appena confermato le elezioni in Romania e Polonia. Germania, Francia e Regno Unito sono naturalmente alla testa di questo sforzo, che deve tener conto dei grandi benefici e del ruolo di una “Unione” europea che è però politicamente semi-paralizzata. In teoria le scelte da fare sono abbastanza ovvie: costruire con determinazione ma con prudenza – cioè senza rompere con gli Stati Uniti e anzi preservando per quanto possibile l’alleanza con loro – una propria indipendenza strategica (cioè nucleare) e puntare a una trasformazione profonda della Nato nel nucleo di una nuova alleanza globale delle liberaldemocrazie, comprendente Canada, Australia, Giappone, Corea del sud e magari in futuro anche India e altri paesi non bianchi. L’Unione e i paesi europei dovrebbero giocarvi un ruolo chiave e autonomo e l’Italia è ancora grande e forte abbastanza da poter avere una parte importante, anche di iniziativa, in questo “aggiornamento” a un mondo nuovo. Ma certo, come ci mostrano le ultime elezioni, la semiparalisi dell’Unione europea, e l’invecchiamento del “vecchio continente”, non si tratta di compiti facili.

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