Traduciamo il discorso pronunciato lunedì dall’ex presidente americano Bill Clinton alla Columbia University per i trent’anni dall’omicidio di Yitzhak Rabin. Trent’anni fa, pochi giorni fa, il 4 novembre, fu uno dei giorni peggiori della mia presidenza e uno dei più tristi della mia vita. Il mio consigliere per la Sicurezza nazionale di allora, Tony Lake, mi disse che Yitzhak Rabin era stato gravemente ferito durante una manifestazione per la pace, dopo un raduno a Tel Aviv. Solo pochi giorni prima era stato negli Stati Uniti per consegnarmi un premio. E, come sempre, odiava gli abiti formali. Così si presentò con un normale completo e cravatta a quel banchetto in smoking. Così chiesi a uno dei miei giovani assistenti di prestargli un papillon adatto. E l’ultima foto che ho di noi insieme è di me che gli sistemo il fiocco. Quando Tony mi disse che nessuno sapeva se ce l’avrebbe fatta o no, ma che era gravemente ferito, chiamai Hillary, che era al piano di sopra della Casa Bianca a guardare la televisione. Le dissi: “Non riesco a guardare, vado fuori sul campo da golf e farò finta di tirare qualche putt”. Rimasi lì, non so, dieci, quindici, venti minuti. Poi alzai lo sguardo verso la porta dello Studio ovale, che dà sul retro, e vidi Tony Lake uscire. Capì dal suo volto e dalle sue spalle ricurve che Yitzhak era morto. Rivivo quel momento continuamente, credeteci o no. Hillary e io ci preparammo per andare in Israele e continuammo a parlare. Dissi che spesso, nella storia, gli assassinii politici si erano ritorti contro i loro autori, producendo esattamente l’effetto opposto rispetto a quello sperato dall’assassino. Quando Sadat fu ucciso da un estremista musulmano che pensava avesse tradito l’Islam facendo la pace, la pace resistette e la politica proseguì. Gandhi fu assassinato da un indù arrabbiato che credeva avesse tradito la sua fede e non fosse più un buon indù. Ma per decenni, l’India mantenne una politica inclusiva e diversificata. Solo ora si è riaffacciata la spinta verso il predominio indù. Ma nel momento in cui sentii la notizia, pensai a quell’uomo, che faceva parte di una famiglia di coloni radicali che ora sostiene l’ala più estrema del governo del primo ministro Netanyahu, e dissi che poteva esserci riuscito. E per dire questo, sento di dovervi spiegare perché lo credo. Sappiamo tutti che il primo ministro Rabin era un soldato coraggioso, un grande leader militare, un patriota di sani princìpi. Ma era anche un acuto osservatore di come pensano e sentono le persone. E più a lungo servì in varie posizioni, più imparò. Era come una spugna, assorbiva tutto ciò che poteva per capire cosa muoveva le persone. Come pensavano, come avrebbero reagito a questa o quella cosa. E fu in grado di navigare in tutte le acque difficili della diplomazia e della politica interna, inclusa l’opposizione estremista che cercava con tutte le forze di delegittimarlo, perché lui continuava a crescere. Disse di essere stato un tempo un leader militare e che, nel 1994, fosse diventato un soldato dell’esercito della pace. Riconobbe che gli interessi fondamentali del suo paese – sicurezza, libertà, tolleranza e democrazia – potevano essere preservati e promossi solo se si fosse trovato un modo per condividere il futuro con i propri vicini. Cercava una vittoria che poteva essere ottenuta solo sul campo di battaglia del cuore umano, dove anche l’altra parte potesse vincere. Quando lui e Yasser Arafat vennero alla Casa Bianca nel 1993 per firmare la Dichiarazione dei Princìpi e compiere quella straordinaria stretta di mano che fece il giro del mondo, non dimenticherò mai quanto lavoro ci volle per arrivare a quella stretta di mano. All’inizio non voleva stringere la mano ad Arafat. Gli dissi: “Devi farlo”. Mi chiese: “Perché?”. Gli risposi: “Guarda, sei tu che hai deciso di fare la pace, non io. Sarai davanti a un miliardo di persone che ti guardano in tutto il mondo. Se hai scelto di farlo, non puoi farlo a metà”. E lui disse: “Va bene, va bene, ma niente baci”. Così il mio consigliere per la Sicurezza, Tony Lake, decise di rendersi utile. Disse: “So come si fa. Stringigli la mano e prova a baciarlo sulla guancia”. Così lo feci. Allungai la mano, lui fece lo stesso e mi mise l’altra mano sul gomito, e non riuscivo ad avvicinarmi a lui per quanto ci provassi. Disse: “Ecco, esercitati. Arafat ti stringerà la mano per primo e sicuramente si muoverà verso di te”. E così andò. E funzionò alla perfezione. Ma ciò che ricordo di più di quel giorno furono le parole e i gesti molto diversi di Rabin e Arafat. Arafat non avrebbe potuto essere più cordiale: abbracciava tutti e sorrideva. Ma quando iniziò a parlare, si rivolgeva alla sua base politica. In sostanza diceva: “Va bene, farò questo passo, ma non preoccupatevi, penserò io a tutto ciò che non ci piace di loro e a tutto ciò per cui dobbiamo ancora lottare contro di loro”. Rabin, invece, parlò come un profeta dell’Antico Testamento. Disse: “Siamo destinati a vivere insieme sulla stessa terra, sullo stesso suolo”. Parlò con profonda compassione dei bambini palestinesi e dell’insicurezza economica e sociale che avevano dovuto affrontare. Non aveva paura, perché non aveva nulla da dimostrare. Dopo la cerimonia tornammo nello Studio ovale e ci sedemmo a parlare, solo noi due, senza nessun altro, senza stenografi. Dovete credermi sulla parola, cosa che oggi nessuno fa più. Lo guardai e gli chiesi: “Perché l’hai fatto?” Lui rispose: “Beh, per due ragioni. Primo, ho capito che mantenere il controllo di queste terre che occupiamo dal ‘67 non rafforza la nostra sicurezza, anzi ci rende più vulnerabili agli attacchi da parte di persone arrabbiate all’interno, e con i progressi tecnologici nelle armi, questo territorio non è più una barriera che protegge il nostro popolo. Secondo, se decidiamo di mantenere questa terra e lo facciamo in modo permanente, allora dovremo affrontare qualcosa che abbiamo rimandato per oltre 30 anni. Cosa faremo con i palestinesi che vivono lì? Li lasceremo votare o no?”. All’epoca, il voto palestinese in Israele rappresentava circa il 7 per cento del totale. Disse: “Se non li lasciamo votare, presto saranno la maggioranza. E allora potremmo essere ancora uno stato ebraico, ma non saremo più una democrazia. Se invece li lasciamo votare, potremo salvare la nostra democrazia, ma non saremo più uno stato ebraico. Non voglio che i miei successori si trovino a dover affrontare questa scelta, e temo le conseguenze di entrambe le strade”. Negli ultimi due anni della sua vita dimostrò che, quando diceva qualcosa, lo pensava davvero. Lavorò instancabilmente per essere un vero partner dei palestinesi. Si impegnò a sostenere Arafat e gli altri leader arabi, specialmente il re Hussein di Giordania, con il quale firmò un accordo di pace nel 1994. Quell’accordo, per quanto ho potuto capire, era sostenuto praticamente da tutti in Israele. La cosa principale che voglio sottolineare oggi, riguardo a ciò che il suo lascito può significare per il futuro, è che sviluppò un rapporto straordinario con Arafat. Arafat lo ammirava profondamente. Non parlava di nessun altro leader politico israeliano nel modo in cui parlava di Rabin. E fu qualcosa di sorprendente, come alcuni di voi mi hanno ricordato oggi, quando venne alla firma della prima grande consegna di territori, dopo l’annuncio sul prato della Casa Bianca. Eravamo nella Sala del Gabinetto, e lui e Arafat stavano firmando queste mappe. Se ricordo bene, c’erano tre copie di nove diverse mappe. Un’infinità di mappe per il piccolo pezzo di terra di cui si trattava, e c’erano letteralmente centinaia di designazioni, incroci, ponti e strade. “Questa è Israele, questa è l’Autorità palestinese”. Tutti le controllarono. Ma loro due erano lì a firmare, e io firmavo come testimone. Mi sentivo come se stessi assistendo a un matrimonio che forse non sarebbe durato a lungo. Dovetti comunque uscire per prendere una telefonata, e mentre ero fuori dalla Sala del Gabinetto, Yitzhak uscì e mi disse: “Abbiamo un problema.” Gli chiesi: “Che succede?” E lui rispose: “Arafat ha visto un tratto di strada su una delle mappe indicato come nostro, ma dice che nei colloqui avevamo concordato di cederlo a loro, ed è molto importante”. Era vicino a molti siti religiosi lungo la via per la Giordania. Così li portai nella sala da pranzo privata e dissi: “State discutendo su qualcosa che non riguarda il mio paese né i nostri interessi. Decidete voi cosa fare”. E me ne andai. Non erano mai stati soli insieme prima di allora. Può sembrare una cosa da nulla, ma se pensate a tutto quello che avevano attraversato, non erano mai stati nella stessa stanza, da soli. Dieci minuti dopo uscirono. Yitzhak mi disse: “Ha ragione, è qui, quindi gliela daremo”. Dissi: “Abbiamo un problema. C’è tutta la stampa mondiale là fuori, siamo già in ritardo e non abbiamo tempo per modificare le mappe”. Lui rispose: “Lo so. Firmeremo queste, e poi all’inizio della settimana gliele consegnerò”. Guardai Arafat e dissi: “Hai capito cosa sta dicendo? Legalmente perderesti questa strada”. E lui rispose: “Assolutamente sì”. E mi guardò come se fosse il portavoce del primo ministro israeliano. Mi disse: “La sua parola vale più di qualsiasi contratto scritto”. Riuscite a immaginare qualcuno nel Congresso americano dire una cosa del genere su un avversario politico? Ne ridevamo, ma questo è ciò che rende possibili le decisioni della vita. Siamo tutti costantemente di fronte a scelte impreviste e spesso spiacevoli, situazioni che nessuno aveva previsto e per le quali non ci sono regole pronte, e dobbiamo decidere subito. Così ciò che senti nel tuo istinto ha un enorme impatto sul corso di una relazione. La sua parola valeva più di qualsiasi contratto scritto. Ecco perché credo che, se Yitzhak Rabin fosse sopravvissuto, saremmo arrivati a un accordo di pace complessivo entro due o tre anni, e il mondo intero sarebbe oggi un posto molto diverso. Dopo che fu ucciso, Israele tornò alla normalità, ma non del tutto. Ci furono elezioni – Dennis Ross e io ne stavamo parlando poco fa – tra l’allora primo ministro Shimon Peres e Bibi Netanyahu, e Netanyahu vinse per un solo punto, introducendo per la prima volta nella storia della politica israeliana spot televisivi negativi, creati dallo stesso consulente che aveva lavorato per il senatore Al D’Amato a New York. E quegli spot erano piuttosto duri. Alla fine chiamai Shimon e gli dissi: “Tu conosci Israele meglio di me, ma credo che tu debba rispondere a questi annunci”. Lui mi rispose: “Nessuno crederà a queste cose. Io appartengo alla generazione fondatrice, e così via”. Gli dissi: “Sì, anche a me, la prima volta che mi sono ricandidato come governatore, attaccavano con spot negativi e pensavo che nessuno ci avrebbe creduto. Invece, nella zona dove la gente conosceva la verità, non ci credettero, ma in tutto il resto dello stato non sapevano nulla e mi hanno battuto sonoramente. Devi rispondere”. Ma aspettò troppo a lungo, e alla fine perse per un solo punto. Poi Netanyahu, a onor del vero, cercò di rallentare, ma comunque di rispettare gli accordi che avevamo firmato. Poi venne eletto Ehud Barak, e anche se gli costò due membri di governo, alla fine di tutti i negoziati arrivammo a un’offerta di pace. Pensate a dove siamo oggi: quell’offerta concedeva ai palestinesi il 96 per cento delle terre oltre i confini del ‘67, più un altro 4 per cento di Israele che i palestinesi potevano scegliere se aggiungere a nord di Gaza, per avere più spazio abitativo, o accanto alla Cisgiordania, per ottenere più terra agricola, oltre al controllo su due dei quattro quartieri della Città vecchia e una presenza quotidiana nei posti d’ascolto che si estendevano fino al Sinai, e molte altre cose. E io ero ancora presidente in quel periodo. Sei settimane prima di lasciare l’incarico, Yasser Arafat venne a trovarmi, e parlava ancora di Rabin. Disse: “Oh, come vorrei che fosse qui”. E io risposi: “Anch’io”. Gli dissi: “Dobbiamo essere fedeli alla sua vita e al suo sogno”. Gli spiegai che potevo andare in Corea del nord per porre fine al loro programma nucleare e missilistico e togliere un grande peso alla popolazione dell’Asia del nord, ma avrei dovuto partire presto e restare via abbastanza a lungo per visitare la Corea del sud, la Russia e la Cina – gli altri garanti della pace che mise fine al conflitto coreano – e anche il Giappone, perché c’erano ancora prigionieri politici nordcoreani. Mi chiese: “Quanto tempo ti servirà?” Risposi: “Se non dormo, dodici giorni. E’ un viaggio lungo”. E Arafat pianse, per la prima e unica volta che l’ho visto farlo. Disse: “Non puoi farlo. Non puoi farlo”. Gli chiesi: “Perché? Perché deve sembrare che ti stia facendo pressione per accettare l’accordo?” E lui disse: “Sì”. E lo apprezzai, mi piace quando la gente mi dice chiaramente come stanno le cose. Anche a voi piace, vero? Ecco perché la fiducia è così importante. Gli dissi: “Va bene”. Ma non andava d’accordo con il primo ministro Barak, e questo non era un segreto. Così mi spiegò cosa non andava, e io gli dissi: “Aspetta un momento. Pensi che io non tenga ai bambini?” Continuavo a pensare al discorso che Rabin aveva tenuto il giorno della firma degli Accordi di Oslo, su quanto si preoccupasse per i bambini palestinesi, e cercai di dimostrarlo in ogni occasione fino alla fine del mio mandato. Lui disse: “Oh sì, tu ci tieni, più degli arabi”. Gli chiesi: “Cosa vuoi dire?” Rispose: “Noi siamo buoni con loro quando sono arrabbiati, quando il loro popolo è furioso e ha bisogno di dare la colpa a qualcuno che non siano i loro leader. Così incolpano l’America o Israele”. Gli dissi: “Se capisci questo, allora devi solo dirmi la verità. Se non accetterai l’accordo, dimmelo. Non ti criticherò. E’ il tuo lavoro. E’ complicato e difficile”. E lui rispose: “No, dobbiamo farlo”. Ma non accadde. E sappiamo cosa successe dopo. Sharon fu eletto primo ministro, poi si ritirò da Gaza, e molte persone si infuriarono con lui. Poi ebbe un ictus. Poi Olmert divenne primo ministro e cercò di portare a termine gli accordi e le proposte che avevamo elaborato con Barak, cercò di riempire gli spazi mancanti, ma il suo indice di gradimento era sceso sotto il 20 per cento, perché era stato incriminato. Alla fine, dissi alle persone con cui stavo lavorando: “Nemmeno Dio vuole la pace in medio oriente”. E da allora, sapete bene cosa è successo. Questo lungo bagno di sangue a Gaza non ha bisogno di ulteriori commenti da parte mia, ma è uno dei momenti più oscuri di tutto il conflitto. Tuttavia, ciò che hanno fatto i gazawi stringendo un’alleanza con gli Houthi, Hezbollah e gli iraniani per uccidere persone nei kibbutz, proprio quelle più favorevoli alla soluzione dei due stati... beh, cosa posso dire? Non è certo un gesto che ispiri fiducia. Ecco perché, in queste situazioni, ho visto sempre che la gente che dice semplicemente di no parte in vantaggio. Quante volte si può sopportare di avere il cuore spezzato? Quante volte si può andare a un funerale? Quante volte si può restare accanto a una tomba? Quante pietre si devono ancora posare sulle tombe di coloro che amiamo? Così mi sono chiesto, quando Keren mi ha invitato a venire qui a parlare, che cosa avrebbe voluto che dicessi Yitzhak. Cosa potrei mai dire? Sono fuori dall’incarico da venticinque anni. Quasi mai sono d’accordo con ciò che leggo nei giornali del mattino. Credo ancora che diversità, equità e inclusione siano una cosa positiva, non negativa. Penso che i gruppi diversi prendano decisioni migliori rispetto ai gruppi omogenei o ai geni solitari. Credo che lui direbbe due cose. Prima di tutto, non cercate di ricreare ciò che eravate, se oggi non potete farlo. Se il treno è partito, non inseguitelo. In secondo luogo, ricordate ciò che resta ancora importante. E’ difficile immaginare, nella geografia, nella storia e nella psicologia di quella piccola e turbolenta regione che tutti amiamo tanto, una pace che possa essere imposta invece che abbracciata. E quindi dobbiamo ricominciare. E ricominciare dove il livello di fiducia è basso e gli interessi di chi detiene il potere potrebbero non essere favorevoli a cedere qualcosa. Dobbiamo ricordare la prima legge di Rabin – come la chiamavamo alla Casa Bianca: “Combatteremo il terrorismo come se non ci fossero negoziati, e negozieremo come se non ci fosse terrorismo”. In altre parole, non smettere mai di parlare con le persone per cercare di risolvere i problemi. In secondo luogo, lui ha sempre creduto che la pace si raggiunge solo attraverso il compromesso. Dobbiamo quindi dire a molte persone, nelle nostre rispettive sfere di influenza, di smettere di pensare solo a se stesse. Oggi il medio oriente, grazie a Dio, è pieno di nuovi attori, molti dei quali molto promettenti. Hanno un sacco di soldi e molta influenza, ma non sono interessati a tutto questo. Non vogliono sprecare tempo a rivedere vecchie dispute o a uccidere altra gente. D’altra parte, potrebbero non rendersi conto che lasciare le persone senza potere e colme di rabbia è una ricetta per il disastro a lungo termine. Dunque abbiamo bisogno che questi nuovi attori ci aiutino. E infine, forse la cosa più importante di tutte: dovremmo ricordare che Yitzhak Rabin credeva di essere diventato più umano nel momento in cui riuscì a riconoscere l’umanità degli altri, a tendere la mano oltre le divisioni del passato, a immaginare bambini che crescono con una visione completamente diversa della vita e un modo diverso di relazionarsi gli uni agli altri. Gli orrori del 7 ottobre, la devastazione totale di Gaza, l’esplosione degli insediamenti in Cisgiordania – tutto questo rende più difficile riconoscere la nostra umanità reciproca quando cerchiamo di tradurla in cambiamenti concreti. Sono quasi sollevato di essere ormai troppo vecchio per dover risolvere tutto questo. Ma so che, se il mio amico fosse qui, direbbe: “Va bene, va bene. E’ così. E ora, che cosa facciamo?” Non credo di aver mai voluto bene a un altro uomo come l’ho voluto a lui, o di aver mai creduto in un altro uomo come ho creduto in lui. E amavo vedere Yasser Arafat seduto lì, non abbandonando la sua posizione, non tradendola, ma riflettendo: “Voglio davvero continuare a combattere con quest’uomo? Non c’è forse un modo per conservare il nostro fuoco, il nostro orgoglio, la nostra identità?”. Sarebbe stato molto meglio. Penso che tutti noi dobbiamo chiederci ogni giorno quanto siamo capaci di essere grandi quando gli altri agiscono in modo così piccolo, quanto siamo disposti ad accogliere quando gli altri fuggono via. Trent’anni fa ho perso un amico, ma il mondo ha perso un leader il cui esempio conta oggi più che mai. Shalom, haver.
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