I feriti italiani in Kosovo squarciano per un attimo la nostra indifferenza

31/05/2023 04:08 Il Foglio

Il Kosovo è piccolo. “Quanto l’Abruzzo”, si dice proverbialmente. Ha un po’ meno di 1.800.000 abitanti, i serbi sono solo 120 mila. Le cittadine del nord, al confine con la Serbia, in cui esplode la violenza sono piccole: Zvecan, Zubin Potok, Leposavić e Mitrovica nord. A Mitrovica, il ponte sul fiume che divide in due la città, come un tempo Mostar, è presidiato da due auto di Carabinieri italiani. Le cause per cui la violenza esplode sono infime, quasi buffe: le targhe delle automobili, per esempio. I sindaci albanesi che le autorità kosovare hanno voluto far votare in quelle cittadine nonostante il boicottaggio serbo sono stati eletti, un mese fa, con il 3,4 per cento, e nemmeno un votante serbo. E così via. Piccole cause producono enormi effetti, dove vige il fanatismo, e viene nutrito devotamente. Parva scintilla, poca favilla gran fiamma seconda. La Grande guerra prese pretesto dalla rivoltellata di un intontito maestrino serbista-mazziniano che non ne aveva la minima idea. Il mondo si crede grande, e non se ne dà per inteso. Lunedì all’improvviso le cronache europee, già gremite, hanno dovuto far largo al notiziario dal Kosovo. Il grande pubblico ha scoperto a bocca aperta una sequela di circostanze insospettate. Che in Kosovo, sotto l’etichetta Kfor, Kosovo Force, e la vecchia autorizzazione Onu, c’è la Nato. Che il contingente Nato, già di qualche decina di migliaia, è di 3.800 membri, quasi 800 italiani, e sotto un comando a rotazione, oggi per la tredicesima volta italiano – il generale Ristuccia. Ha scoperto che ci sono gli alpini, perché 14 di loro erano finiti in ospedale. Se no, probabilmente, avrebbe continuato a non sentirne parlare. Questo succedeva lunedì 29. Ma venerdì 26 era già successo. Il giorno prima i disgraziati sindaci al 3,4 per cento, allo sbaraglio, si erano insediati alla chetichella in certe frazioni albanesi. Il giorno dopo, quando polizia speciale e autorità hanno sostituito la bandiera kosovara a quella serba sui municipi delle cittadine, i dimostranti serbi erano già scesi in piazza, e a sera, dopo una ridda di sassaiole, granate, lacrimogeni e anche colpi di fuoco, si contavano “decine di cittadini, cinque agenti feriti e quattro veicoli della polizia danneggiati”. Benché migliaia di militanti serbi dei più accaniti, la Srpska Lista, avessero preferito andarsene a Belgrado per partecipare alla manifestazione indetta dal presidente Aleksandar Vucic e intitolata alla Serbia della speranza, “Srbija Nade”. Là Vucic ha annunciato il suo nuovo partito irredentista. (Una cronaca è nell’eccellente Osservatorio Balcani Caucaso). Niente di nuovo, si direbbe. La guerra civile post jugoslava non è mai finita, compreso il suo supplemento kosovaro del 1998-99. Ogni tanto se ne annuncia una soluzione, mediata dalle varie autorità internazionali: l’Europa, il Quintetto, l’ambasciata americana... L’ultima, del marzo scorso, a Ohrid, Macedonia, ha registrato la soddisfazione generale perché Vucic e il kosovaro Albin Kurti si sono dati la mano, ma si sono ben guardati, Vucic specialmente, dal mettere la firma sotto il piano. Che confermava la costituzione di una “Associazione delle municipalità” a maggioranza serba in cambio del riconoscimento serbo dell’adesione del Kosovo alle istituzioni internazionali. Tutto inevaso. Nel frattempo era successo altro. In Serbia due stragi “all’americana” avevano suscitato una promettente reazione civile contro la proliferazione di armi e i sentimenti che l’accompagnano: effimera, si direbbe. Ma soprattutto è successa, da quindici mesi, la guerra d’Ucraina. Che aveva avuto nella guerra incivile post jugoslava, fra Serbia e Croazia e soprattutto fra Serbia e Bosniaed Erzegovina, e poi Serbia e Kosovo, la sua prova generale: il nazionalcomunismo serbo di Slobodan Milosevic nella parte che sarebbe stata della Russia di Putin. E ora la messinscena sulla scala grandiosa di una guerra che si gonfia fino a pretendersi mondiale torna a pesare su quella anticipazione. L’Ucraina, in nome dell’integrità territoriale, era stata dalla parte della Serbia nella stessa contesa del Kosovo. Perfino Zelensky l’ha ribadito. Ma la solidarietà reciproca non ha retto agli eventi. La Serbia è troppo legata, e dipendente, dalla Russia, per il suo nazionalismo ortodosso coltivato dal martirologio della disfatta del Campo dei Merli nel giorno di san Vito, il 15 giugno 1389 – e “il Kosovo è il suo cuore”, come si è premurato di scribacchiare su una telecamera l’irredimibile Djokovic. Vucic deve barcamenarsi, fra il richiamo delle finanze e dello stile di vita dell’Unione europea, e l’incombenza della Nato, e la tentazione di guadagnarsi il suo posto nella gran fedeltà slavo-ortodossa cui la guerra d’Ucraina disegna una temeraria geografia: dalla madre Russia al sud marittimo ucraino di Crimea, Mariupol, Odessa, alla Transnistria, all’invidiato doppio gioco ungherese, alla prosecuzione di Vojvodina e, oltre Belgrado, fino al nord del Kosovo, al cui confine “solo amministrativo”, Vucic ha appena di nuovo ammassato le truppe “in stato di massima allerta”. E’ certo difficile che un tale paranoico disegno si azzardi a tradursi in effetti militari, ma è molto più possibile, lo è già, che agisca come una strategia della tensione dalla Russia fino al Mediterraneo. I manifestanti serbi di lunedì hanno verniciato le auto con la Z. Lavrov ha pronunciato dall’Africa una constatazione che dissimula male un auspicio: “I serbi si battono per i loro diritti. Una grande esplosione minaccia di avvenire nel cuore dell’Europa”. E prima o poi il pubblico di qua dall’Adriatico dovrà anche accorgersi bruscamente del fuoco che cova sotto la tregua di Dayton 1995, che usurpa il nome di pace: Sarajevo è con l’Ucraina, ma la Repubblica Srpska del bullo Milorad Dodik – quella cui Dayton regalò oscenamente Srebrenica – non si barcamena affatto, ostenta la sua devozione a Putin, fa la spola fra Banja Luka e Mosca, e annuncia a ogni pie’ sospinto la secessione. Reciprocamente, guerra d’Ucraina e protagonismo, anche se involontario, della Nato, offrono a Kurti la tentazione di forzare un confronto armato. L’Europa è ancora una volta, in principio, la rete a maglie larghe che dovrebbe sventare la stretta tra paesi che le appartengono. Tra Borrell – la cui Spagna del resto non è fra i 101 paesi che hanno riconosciuto il Kosovo – e Blinken, anche qui è il secondo ad avere più voce in capitolo, e l’ha usata l’altroieri per ammonire i kosovari a non forzare la mano. Il vero concorrente, quanto all’influenza esterna, è anche qui Erdogan, a Belgrado come a Sarajevo e a Pristina. Il punto non sta solo in una proverbiale debolezza d’istituto europea, più presunta che reale: sta piuttosto, in questo caso, nell’indifferenza, che è il vero connotato della famosa questione balcanica. Non gliene frega niente, all’Europa, non ce ne frega niente, a noi. Però lunedì gli alpini sono finiti all’ospedale, e la presidente Meloni ha pronunciato una frase da Cadorna.

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